Il timore di un razzismo di ritorno
«Non è stato solo lo strangolamento»: apre con un editoriale senza firma – e quindi a nome dell'interna redazione – il New York Times, a corredare la lunga serie di articoli sulle proteste avvenute in città e nel resto del Paese in seguito a quella che è ormai vista come una serie di omicidi di afroamericani da parte della polizia. Al di là di quanto accaduto in questo caso specifico, osserva infatti il quotidiano newyorkese, «c'è un semplice problema che viene sottovalutato: la maniera in cui Eric Ganer [l'ultima vittima, ndr] è stato bloccato dalla polizia». Non solo infatti la stretta al collo, come fa notare anche The Atlantic, è stata bandita già da diversi anni – se non «nel caso in cui il poliziotto si trovi in pericolo di vita» -; ma altrettanto mortale avrebbe potuto essere «la pila di poliziotti che stava sopra di lui schiacciandogli lo stomaco». Secondo il New York Times si imporrebbe prima di tutto una revisione dei metodi di addestramento della polizia; cosa che in effetti il presidente Obama ha promesso, ma che – fa notare sempre The Atlantic in una lunga cronistoria in proposito – non è mai stata davvero messa in atto se non sulla carta.
A firmare l'editoriale del Washington Post è per l'appunto un afroamericano, Eugene Robinson: «Non è un Paese per neri», afferma tristemente parafrasando il titolo di un noto romanzo e dell'omonimo film, «e le ultime parole di Robinson, «sto soffocando», oggi valgono per me». Oltre a chiedersi ironicamente quante morti serviranno prima che la cosa finisca, Robinson si dice preoccupato in primo luogo perché «i giovani afroamericani stanno ricevendo oggi una lezione su come questa società svaluta le loro vite: l'uguaglianza davanti alla legge è uno scherzo crudele, e l'idea che il razzismo fosse un triste ricordo del passato è assurda». La domanda, quindi, è come cresceranno queste nuove generazioni, fomentando ulteriormente un conflitto sociale già esploso.
Un timore in effetti giustificato: anche diverse testate sul web, come The Concourse, arrivano ad affermare che «non è il sistema giudiziario a non funzionare, né la polizia o la società americana. Tutto sta funzionando perfettamente, esattamente come dovrebbe sin da quando gli schiavisti hanno dominato questo Paese. Ed è questo che è sbagliato».
Ma è tutto il Paese ad unirsi alle proteste, anche quelle zone in cui la presenza di afroamericani è pressoché irrilevante: come Oakland, nei pressi di San Francisco, celebre però per essere stata la culla dei movimenti di protesta negli anni Sessanta. «Guardando alla storia, è la gente come noi che ha portato il cambiamento – ha affermato al SF Gate una delle donne scese in strada, Yvette Felarca -. Non è solo quanto è accaduto a Ferguson, non sono solo i poliziotti di Ferguson che uccidono né solo i giudici di New York che li coprono. Questo è il momento di farci sentire tutti, quella gente non è sola».
Naturalmente, la protesta corre anche tramite social network e tramite i commenti agli articoli pubblicati dai giornali: «Come afroamericana, ho sempre pura per i miei figli – scrive Farah -, e ci è sempre stato insegnato a portare i nostri documenti con noi nel caso la polizia ci fermi. O in quello in cui debbano identificare il cadavere». «Che questo Paese non lavori per noi è la prima cosa che noi afroamericani impariamo», aggiunge Gregory. E se molti commenti sono del tono «tanto non cambierà mai nullav, un untente anonimo osserva che «alla lunga la fiducia nella polizia e nel sistema giudiziario crollerà. E allora gli eventi precipiteranno». «Sono triste e sconcertata – scrive Juliette, bianca -. Perché non riusciamo a fare di meglio, dopo tutti questi anni?». E conclude con lo slogan della protesta: #blacklivesmatter, le vite dei neri contano.