Il tifo non è una malattia
Morire per una partita di calcio. Lo ripetiamo in modo ossessivo, quasi compulsivo, senza trovare una risposta. Uscire di casa, lasciarsi alle spalle la propria città, un lavoro, gli affetti più cari per seguire la squadra del cuore in cerca di ventura. Tutto in nome della pagana liturgia del pallone. Colori sociali che diventano ostie da celebrare, miti da conservare e a volte simboli da contestate.
Uscire di casa per non tornare più. Di mezzo solo una strada che divide la normalità da quei famosi 90 minuti d’effervescenza stra-ordinaria racchiusi dentro una finale di Coppa Italia in grado allo stesso tempo di salvare una stagione mediocre e confermare una sportiva inferiorità.
La morte del giovane Ciro, 31 anni, dopooltre 50 giorni d’agonia al Policlinico Gemelli di Roma, ci stampa una drammatica fotografia: così impossibile da essere unica, così reale da spingerci dentro un eterno ritorno. Scene già viste, vite spezzate nel nome del pallone oppure sarebbe giusto dire: con la scusa del pallone. Morire di sport e per il proprio sport è quanto di più innaturale e irreale ci possa essere. Ci pietrifica la morte di un giovane pilota in pista, di un ciclista al Giro d’Italia, di un tifoso a ridosso di uno stadio perché lo sport fin dalle sue origini, la vita, la mette in rima. Lo sport è calda passione ed eterna dedizione, operazione di riduzione al minimo comune denominatore. Nel calcio, “religione universale della maggioranza degli Homo Sapiens”, tutto questo conta ancora di più.
Fatichiamo a scrivere e a commentare ogni episodio figlio dell’umana contraddizione. Di certo possiamo lasciare da parte l’onore delle armi e gli eroismi del caso. Quando muore un ragazzo per via di una partita, nei paraggi di una partita, la verità è che abbiamo perso tutti e l’italico guaio è non sapere mai fino in fondo di chi sia veramente la colpa. Sappiamo quasi con certezza chi è stato a sparare, ma poi di mezzo ci sono altre variabili: la scarsa presenza della polizia, la tessera del tifoso, le calde curve degli ultrà, vuoti normativi, feroci campanilismi declinati in una violenza a buon mercato. Una manciata di “se” e una dose di inutili “ma”.
Mi vengono in mente i Nuovi Poemetti di Giovanni Pascoli: «Dolore è più dolor se tace». Allora è meglio parlare, ma non con il linguaggio dei mezzi di comunicazione che porta il calcio ad essere «una menzogna ben raccontata», come disse l’ex attaccante argentino Jorge Valdano bensì con la dignità della madre di Ciro che invoca il rispetto e prega finché la morte del suo amato figlio non chiami nuova violenza.
Siamo a terra, attoniti, con una Nazionale che riporta l’orologio del nostro calcio indietro di 50 anni. Come nel 1962 e nel 1966 così in Sudafrica 2010 e Brasile 2014 non passiamo il primo turno. Questa volta però si dimette il presidente della federcalcio e pure il commissario tecnico degli Azzurri Cesare Prandelli, il quale con limpida onestà ammette gli errori e se ne assume piena responsabilità. «Il calcio italiano è ufficialmente in crisi», ha commentato un solerte opinionista di casa nostra. Possiamo aggiungere di certo che lo sapevamo da molto tempo.
Ciro Esposito e la nostra Nazionale. Due facce di un inceppato sistema-pallone così diverse eppure mai così vicine. Dobbiamo e vogliamo ripartire da qui da una totale morte sportiva ed umana d’inappellabile verdetto. Non possiamo tacere nei bar sport così come a palazzo passando sopra alla morte di un giovane ragazzo altrimenti saremo vittime del narcisistico fallimento che il campo ci ha rivelato. Qui mi viene in mente Marcel Proust e il suo «dolore che sviluppa i poteri della mente». Chissà che qualcosa finalmente s’illumini davvero.