Il tfr conteso e le leve per uscire dalla crisi
Nel pieno di una crisi che il ministro dell’economia Padoan ha definito «peggiore di quella del 1929», i governi sono alla ricerca degli strumenti necessari per far ripartire l’economia. L’esecutivo italiano ha utilizzato la leva fiscale per far arrivare 80 euro mensili nelle buste paga dei lavoratori con una fascia di redito annuale inferiore ai 26 mila euro. Chi è senza lavoro e i pensionati sono rimasti a bocca asciutta. Il reddito annuale di riferimento riguarda, inoltre, il singolo e non quello del nucleo familiare. La maggiore disponibilità di denaro dovrebbe far aumentare i consumi attivando il ciclo virtuoso della produzione e dell’occupazione. I primi dati, tuttavia, non sono incoraggianti. I ceti sociali più deboli, più propensi a spendere immediatamente per rispondere a bisogni essenziali, non hanno ottenuto il bonus.
Dove prendere altri soldi da mettere in busta paga? La nuova misura del governo guidato da Matteo Renzi riguarda il trattamento di fine rapporto (tfr). Il lavoratore dipendente privato (non si parla finora di statali) riceverebbe comunque o potrebbe chiedere alla propria azienda, senza attendere la fine del rapporto, di ricevere, a rate mensili, l’importo di metà della liquidazione che gli spetta. Esistono già delle regole che permettono, con alcuni limiti, di chiedere l’anticipo di somme comunque spettanti al dipendente in ragione dell’acquisto della casa o di spese sanitarie. Ma sul tfr esiste da tempo un serio contenzioso perché la massa di denaro accantonata è considerata, secondo molti, il sostegno per la previdenza integrativa necessaria per integrare le future pensioni sempre più ridotte. La pressione a favore del versamento dell’intero importo maturato ogni anno ai fondi pensione ha prodotto una normativa che impedisce a chi aderisce ad un fondo di cambiare idea e di accantonare l’importo, maturato e rivalutato, presso l’azienda ( per le società entro 50 dipendenti) o un fondo del Tesoro presso l’Inps (per le aziende di maggiori dimensioni).
Miliardi in gioco
Secondo i dati ufficiali, il flusso finanziario annuale del tfr, pari a 22-23 miliardi di euro, va in parte ridotta (tra 5 e 6 mld) ai fondi pensione mentre il resto resta ancora in azienda (11 mld) o presso l’Inps (6 mld).
Di queste cifre gran parte dei lavoratori italiani hanno ovviamente bisogno per rispondere alle necessità quotidiane ma si tratta pur sempre di importi che non vedrebbero più in futuro e che le aziende, a livello finanziario, si farebbero anticipare dal sistema delle banche che hanno il loro tornaconto dato che stanno ricevendo il denaro dalla Banca centrale europea al vantaggioso interesse dello 0,5 per cento. Anche il fisco vedrebbe anticipato il gettito di entrate previste, invece, al termine del rapporto di lavoro.
Ci andrebbero a guadagnare tutti? «Pura illusione finanziaria» che servirebbe a distogliere lo sguardo dalla mancanza di investimenti strutturali e dai tagli delle manovre che andranno ad impoverire una popolazione che si troverà con risorse ridotte al momento della pensione, secondo Felice Pizzuti, professore ordinario di politica economica dell’università di Roma La Sapienza. Di buona idea, da realizzare con ponderazione, parla invece Stefano Patriarca, esperto di politiche economiche e del lavoro sul sito degli economisti “La voce.info” perché senza ripresa effettiva dei redditi e dei consumi anche ogni previsione pensionistica appare solo una promessa non realizzabile.
Resta il fatto che mentre si discute di come far arrivare più denaro nel portafoglio di certe categorie di lavoratori, è in via di arrivo, per il 2015, una nuova formulazione dell’Isee (Indicatore della situazione economica equivalente) che il forum dell’associazione familiari considera penalizzate per chi ha figli a carico, mentre i lavoratori precari restano esclusi da ogni trasferimento monetario e continuano ad aumentare i costi per i servizi e tariffe (il metano ha avuto un aumento del 5,4 per cento ad ottobre!).
Investimenti necessari e paradisi fiscali
Il dibattito sul tfr, e le altre polemiche ciclicamente riproposte sotto l’incalzare della cronica mancanza di liquidità, costituiscono un ostacolo ad affrontare i veri nodi problematici che richiederebbero un intervento deciso del governo italiano per “una macro economia civile” come ha chiesto l’economista Leonardo Becchetti nell’editoriale di Avvenire del 4 ottobre 2014. Secondo Becchetti «è tutta la politica post-crisi finanziaria globale dell’Ue che è fallita producendo un buco nella domanda aggregata (consumi più investimenti), l’arresto della crescita, la deflazione». Nelle sei misure necessarie per invertire la rotta, Becchetti individua l’urgenza di un intervento della Bce per «liberare importanti risorse oggi destinate al pagamento degli interessi del debito» pubblico, «producendo un formidabile stimolo alla domanda interna di tutti i Paesi». Altra misura definita indispensabile è quella di intervenire, tramite «un’armonizzazione fiscale» sulle «imprese che producono elusione fiscale e spostamento dei profitti» mettendo fine alla tolleranza dei «paradisi fiscali interni all’Unione». Temi centrali affrontati dall’economista dell’università di Roma 2 nel laboratorio promosso dal Mppu italiano per offrire una seria chiave di lettura sulle leve da toccare a proposito di economia e lavoro.