Il testamento spirituale di Shahbaz Bhatti
"Mi è stato richiesto di porre fine alla mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita”, sono alcune delle parole del ministro pakistano ucciso lo scorso 3 marzo
E’ la forza del web che esalta la vita anche oltre la morte. Lanciato per primo dalla Fondazione Oasis del Patriarcato di Venezia (Fondazione che opera per il dialogo tra i monoteismi), il “testamento spirituale” del ministro pakistano per le minoranze religiose Shahbaz Bhatti, assassinato il 3 marzo scorso a Islamabad ha fatto il giro del mondo, varcando confini e appartenenze religiose. E’ stato rilanciato dai maggiori quotidiani nazionali e tradotto in varie lingue. L’arcivescovo di Firenze ha chiesto al clero fiorentino di leggerlo domenica prossima in tutte le parrocchie della città.
Sono righe impregnate di vita, di coraggio, di offerta estrema per la causa del Vangelo, per l’impegno di dialogo e cooperazione tra le religioni. E proprio per questo il ministro Bhatti è stato ucciso. In tanti oggi chiedono che sia riconosciuto martire. Lo hanno chiesto per primi i vescovi pakistani. E anche la loro voce è arrivata lontana. A Londra l’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, primate della Comunione anglicana, così di lui ha scritto: “Shahbaz Bhatti è morto, a tutti gli effetti, come un martire. Voglio essere chiaro, martire non solo per la sua fede cristiana, ma per la sua visione dei cristiani e dei musulmani pakistani. Quando lui ed io abbiamo parlato al Lambeth Palace lo scorso anno, era pienamente consapevole dei rischi che correva. Lui non si lasciò deviare nemmeno per un momento dal suo impegno per la giustizia per tutti. Che una persona di tale coraggio e fermezza di propositi sia stata nutrita dalla cultura politica del Pakistan è di per sé una testimonianza della capacità di quella cultura di mantenere viva la sua visione. E questo è uno dei pochi e veri segni di speranza in una situazione di profonda tragedia che ha urgente bisogno di preghiera e di azione”.
Ecco il testamento del ministro Bhatti:
"Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia.
Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.
Mi è stato richiesto di porre fine alla mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora — in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan — Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita.
Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Io dico che, finché avrò vita, fino al mio ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri.
Credo che i cristiani del mondo che hanno teso la mano ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005 abbiano costruito dei ponti di solidarietà, d’amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto che riusciremo a vincere i cuori e le menti degli estremisti. Ciò produrrà un cambiamento in positivo: le genti non si odieranno, non uccideranno nel nome della religione, ma si ameranno le une le altre, porteranno armonia, coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione.
Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani qualunque sia la loro religione vadano considerati innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù ed io potrò guardarLo senza provare vergogna".
(il testo che sarà letto sabato 12 e domenica 13 marzo nelle parrocchie dell’arcidiocesi di Firenze)