Il terzo uomo
«La vita l’ho passata a inseguire quei due». Coppi e Bartali. Dietro di loro c’era lui, sempre: Fiorenzo Magni da Vaiano in provincia di Prato. Tre Giri d’Italia (1948, 1951, 1955) e tre Giri delle Fiandre (1949, 1950, 1951). Coraggioso, tenace, mai domo, Magni in Belgio diventò leone: il leone delle Fiandre.
«Si dice che abbia avuto la sfortuna di correre nei tempi di Coppi e di Bartali, Koblet e Kubler, Bobet e Van Steenbergen. Non è vero. È stata una grande fortuna. Questi bravi diavoli mi hanno insegnato a saper perdere».
Completava il podio, spesso anche i buchi dell’albo d’oro. Vincitore perdente, campione silenzioso all’ombra del mito, Magni sarà per sempre “Il Terzo Uomo” del ciclismo italiano. Calvo, schivo, riservato: era lui l’estetica dell’antipersonaggio. Al dire preferiva il fare. «Se uno parte rassegnato va poco lontano. Io ho valutato come e dove avrei potuto migliorare, ho sempre cercato di avere le carte in regola per vincere, in bici e nella vita». Lui ci sapeva fare.
«Magni – disse il celebre telecronista Adriano De Zan – è stato un corridore che ha capito anni luce prima quello che altri nemmeno riuscivano a immaginare. Fu lui a capire che gli sponsor sarebbero stati la fortuna del ciclismo e dello sport». Pioniere del business, Fiorenzo fece stampare per la prima volta sulle maglie dei corridori il nome di un’azienda estranea al mondo delle due ruote a pedali. In quegli anni lontani, età dell’oro del ciclismo italiano, il confine tra sport, cultura e politica era alquanto sottile.
Magni fu ciclista, ma non solo. Uno striscione registrato nel 1952 lungo le strade di Roma, riportava questa frase: «Chi vota la Dc vota Coppi, vota Bartali; chi vota Msi vota Magni». Il 4 giugno del 1944 Magni,, arruolato tra le milizie fasciste partecipò molto probabilmente a un agguato dove persero la vita diversi partigiani, tra cui il sergente maggiore dell’esercito italiano Lanciotto Ballerini.
Al termine della guerra, nel dicembre del 1945, Magni venne processato insieme ad altri ex fascisti. La sentenza del tribunale stabilì che la corte non era in grado di dimostrare l’effettiva partecipazione di Magni al massacro di Valibona. Solo l’amnistia, approvata da Palmiro Togliatti nel giugno del 1946, restituì a Magni la possibilità di tornare in sella alla bicicletta.
Al Giro d’Italia del 1948, Coppi con la vittoria in tasca si ritirò dalla corsa in segno di protesta. Al termine della tappa con arrivo a Trento, Magni perse meno terreno del previsto. Coppi fece ricorso e si venne a sapere, grazie a svariate testimonianze, che Magni era stato spinto lungo le salite, il suo tallone d’Achille. La giuria punì Magni con due minuti di penalizzazione che permisero comunque al corridore toscano di conservare la maglia rosa fino a Milano.
«Al Giro del ’56 – raccontava Magni – caddi nella discesa di Volterra e mi fratturai la clavicola. "Non puoi partire", disse il medico. Io misi la gommapiuma sul manubrio e scavalcai gli Appennini, ma provando la cronoscalata di San Luca, a Bologna, non riuscivo proprio a pedalare. Allora il mio meccanico, Faliero Masi, mi tagliò una camera d’aria, la legò al manubrio ed io la strinsi tra i denti. Il giorno dopo in seguito a un’altra caduta mi fratturai l’omero. Svenni dal dolore. Ero già sulla lettiga. Mi buttai giù». Era il 1956, l’anno del Giro vinto da Charly Gaul e della tempesta di neve in pieno giugno sul traguardo del monte Bondone. Clavicola e omero fratturati, camera d’aria tra i denti, a Milano Magni arrivò secondo. Sul Bondone a spingerlo questa volta c’erano solo la grinta del corridore e il carattere del campione.
Ieri sono entrato nella stanza di un ragazzino. Sul retro della porta ho visto il poster di Bartali e anche quello di Coppi. Oggi ho saputo che ha attaccato anche quello di Magni.