Il terzo occhio dei Lama
Sono una testimonianza rigorosa dell’antica tradizione spirituale tibetana i volti dei Lama buddisti immortalati da Melina Mulas.Tradizione di cui questi monaci sono eredi e custodi gelosi.Tutti conosciamo la loro storia recente. Dopo l’invasione cinese del 1959, solo una severa disciplina e un profondo attaccamento alle proprie radici hanno consentito che la loro tradizione millenaria fosse preservata e trasmessa nella sua integrità grazie all’insegnamento dei maestri rifugiati, fin dagli anni Sessanta, in India e in Nepal. È di questi giorni la notizia che una nuova ferrovia collegherà presto Lhasa con Pechino. Se consideriamo che il numero dei cinesi trasferiti in Tibet ha già superato quello dei tibetani autoctoni, non è infondato il timore che questa cultura millenaria possa davvero estinguersi. Ancora più prezioso e attuale ci giunge dunque questo contributo alla sua conoscenza. Le immagini in bianco e nero della mostra ci pongono in condizione di sentirci osservati e di osservare, a patto che sappiamo leggere nella espressività dei loro occhi. Con il semplice espediente di chiedere ai diversi soggetti di guardare l’obiettivo, la Mulas li ha messi in condizione di regalarci questi sguardi che svelano l’anima. Sappiamo che i Lama tendono a sviluppare, nelle loro pratiche meditative e grazie a un’educazione costante, ciò che è stato definito il terzo occhio. Sono immagini, dunque, che rappresentano sguardi particolarmente educati a vedere oltre le apparenze. La ricerca della Mulas (figlia del celebre fotografo Ugo) è iniziata 14 anni fa e terminata nel 2002 sotto la guida del Dalai Lama stesso che ha orientato l’autrice verso i maestri più rappresentativi, aiutandola a raggiungerli attraverso l’India, il Sikkim, il Nepal, e anche in diversi paesi europei. Spogliata dal suo sapore esotico o delle ingenuità turistiche, la cultura di un altrove che non ci appartiene, ma che ci è sempre meno lontano, assume il semplice ma assertivo carattere di una presenza ineludibile. Nel gioco delle immagini si colgono due aspetti diversi ma tra loro legati: quello della reciproca osservazione capace di generare comprensione e tolleranza; e quello della fotografia come mezzo di indagine antropologica, ma anche veicolo di un più aperto incoraggiamento alla comprensione tra culture. Accompagnano la mostra venti fotografie a colori che danno un’idea del contesto in cui si è andata sviluppando la cultura tibetana.