Il terremoto dell’Emilia un anno fa
Oggi è una triste ricorrenza: sono infatti passati i primi 12 mesi dal sisma che ha colpito una zona circoscritta della pianura padana, impropriamente detta Emilia, ma che in realtà si trova a cavallo di tre regioni e cinque province.
Ma qui è dall’Emilia che scriviamo, precisamente da Cavezzo, uno degli epicentri dell’incredibile sequenza di scosse che hanno cambiato la vita di diverse centinaia di migliaia di persone.
Qual è ora lo stato delle cose a Cavezzo e dintorni? Noi che ci abitiamo lo sappiamo bene, ma vogliamo raccontarlo a chi vive lontano da queste zone, a quella distanza minima che minimizza automaticamente tutte le conseguenze che questo evento naturale e drammatico ha causato.
Moralmente, prima di tutto, non siamo tranquilli. Tanto per cominciare, la paura delle scosse vive ancora dentro di noi. Sappiamo di non poterci fare niente, sappiamo di aver preso abbastanza precauzioni per non rischiare di nuovo, ormai ciò che è crollato o inagibile è fuori dalla possibilità di nuocere. Ma la paura che vive dentro di noi è dovuta a quella sensazione profonda d’impotenza che ci coglie tutte le volte che uno sciame sismico si produce. Abbiamo passato diversi mesi di tensione fisica e mentale, questo stress cronico ci ha cambiato, se non per sempre, per lungo tempo.
In più viviamo il disagio del vivere in un territorio che ha un futuro tutto da reinventare. Se vogliamo sottolineare il lato positivo di quello che abbiamo vissuto negli ultimi tempi, possiamo dire che abbiamo imparato cosa vuol dire essere una comunità. Abbiamo ridato molto più valore alle relazioni interpersonali e alle reti di persone – vicini di casa, colleghi, conoscenti – che possono condividere le paure, un pasto e le notti passate insonni. Da questo stiamo ripartendo, mettendo insieme i talenti, le competenze, le capacità, le idee. Sono nate tante iniziative autonome ad opera di singoli e di gruppi, come Emiliamo, Cavezzo 5.9, Radio Emilia 5.9, solo per citarne alcune, per creare opportunità e soprattutto per testimoniare quello che stiamo vivendo.
La ricostruzione è un processo lungo, complicato e sinceramente non sappiamo dove ci porterà. Sono stati stanziati fondi, come avete imparato dagli slogan sui giornali, ma i soldi ancora non sono arrivati dove serve. In Italia, oltre a tante altre cose, mancano leggi che diano qualche certezza in questi casi, per cui viviamo quasi alla giornata in questo senso. Dico viviamo anche se io sono tra i pochi fortunati che non hanno perso né casa, né lavoro: tuttavia mi sento parte di questa comunità e posso testimoniare di tante persone che alla perdita della casa o del lavoro hanno dovuto sopperire in modi impensabili, in attesa che ciò che è stato prospettato si realizzi tra mille difficoltà burocratiche. Specchio di una Italia divisa in compartimenti stagni (politica, finanza, ordini professionali, autorità civili) che non si parlano tra loro e faticano a trovare mediazioni utili.
Quindi la situazione non è molto diversa da quella che, chi di voi è venuto a trovarci mesi fa per portare aiuto e affetto, ha potuto vedere: ci sono ancora macerie in giro, vecchie o nuove per le demolizioni necessarie; ci sono puntellature in legno che cercano di salvare il salvabile; c’è qualche edificio che avendo bisogno di riparazioni relativamente facili è già stato riparato, ma con fondi privati. È vero, non tutto è crollato e la maggior parte degli edifici è rimasta in piedi, seppur con dovute differenze da città a città; ma l’equilibrio delle nostre comunità è stato letteralmente buttato in aria.
Per esempio: il centro di Cavezzo, che statisticamente è il comune più danneggiato, è quasi del tutto riaperto, rimane la piazza della chiesa in zona rossa. Ma questo perché la conformazione di questo paese include un centro storico molto limitato, specialmente se lo confrontiamo con realtà storicamente più interessanti come Mirandola, Concordia sulla Secchia e San Felice sul Panaro. In questi casi, i crolli e le devastazioni degli edifici del centro hanno determinato lo svuotamento di interi quartieri con le loro abitazioni e attività commerciali, per cui le comunità non hanno più un punto principale di aggregazione.
In questi casi, succede più facilmente che le famiglie e i singoli decidano di spostarsi definitivamente dalla Bassa verso altre zone della provincia. Questo significa che nel tempo, se la ricostruzione non potrà essere accelerata, questi luoghi si svuoteranno e la ricostruzione arriverà troppo tardi per una vera rinascita della zona.
Se le condizioni lo permettono, in ogni caso, nessuno vuole andarsene da qui. In quei giorni di emergenza, abbiamo messo le famiglie in sicurezza, ma la nostra volontà è stata – ed è ancora – quella di non farsi sconfiggere né dal terremoto, né dalle sue lunghe conseguenze, più umane che naturali. Abbiamo lavorato in condizioni precarie, abbiamo dovuto inventarci modi per sopravvivere e lo stare uniti è stata la nostra carta vincente.
Ci siamo tirati su le maniche anche per protestare, per ricordare ai nostri politici locali che non bisogna accontentarsi di quello che passa il convento per ricostruire un intero territorio in tempi utili perché non muoia. Sono nati comitati di cittadini che stanno portando avanti le istanze di dialogo e di protesta con gli enti locali, per ottenere quanto più possibile in termini di fondi e agevolazioni. I percorsi non sono facili, ma pian piano i risultati arrivano.
Se potete, venite a trovarci anche quest’anno. Avere con noi gruppi da tutta Italia che ci hanno portato aiuti, ma soprattutto affetto e condivisione, è stata una medicina ricostituente. Ne avremo ancora bisogno.