Il tennis in un circolo… Vizioso
Maria Elena si affaccia di fretta alla porta di casa per lasciare lo zainetto e prendere la sacca ed un panino. Finita la mattinata al liceo, l’attende un lungo pomeriggio di allenamento al circolo T.T. Vianello all’Eur, 24 chilometri da casa. Per cinque giorni la settimana, per quattro ore al giorno, questa è la sua vita: il weekend, ma non solo quello, è speso nei tornei. Maria Elena è, a sue spese, una dei circa 50mila tesserati agonisti del tennis italiano a fronte dei 2.200.000 praticanti, il quarto sport più amato dagli italiani. Ma anche una disciplina in cui la retrocessione in serie C di Coppa Davis della nazionale azzurra è solo l’ultimo, vergognoso segnale di uno sport e di un ambiente in progressivo degrado da oltre vent’anni. Lo gridano cifre, risultati, classifiche, bilanci e denunce dei tecnici, ex-giocatori e dirigenti. Non è facile scoprire i perché di una crisi che non ha uguali nel panorama dello sport italiano. Eppure basta affacciarsi ad uno dei 3mila circoli aperti in Italia per cominciare a comprendere come questi, da tempo, non assolvano più la loro funzione. Ti aspetti gente con la racchetta in mano e trovi arzilli vecchietti che conversano, leggono il giornale, prendono un aperitivo, giocano a bridge e scala quaranta. Qualcuno che gioca a tennis, a dire il vero, c’è: quelli che cercano di conservare la linea, quelli che devono smaltire l’abbuffata della sera prima, quelli che cercano di distrarsi dal lavoro fuggendo sulla terra rossa nell’intervallo del pranzo. Per vedere qualche giovane a lezione col maestro, occorre attendere il pomeriggio avanzato. Dopo cena il circolo passa di mano ai patiti del calcetto. È evidente come l’istituzione circolo non riesca più ad assolvere alla sua funzione di reclutamento, promozione ed insegnamento del tennis. Fino agli anni Ottanta la spinta dei dirigenti appassionati era ancora forte, così come la vocazione degli aspiranti giocatori ed il senso di appartenenza al club, l’orgoglio dei maestri nell’indicare una strada, tecnica e morale. Da quel momento in avanti il sistema della Federtennis, statalista ed iperprotettivo, ha aggravato la deriva non agonistica dei circoli, umiliando la base, depredando i maestri dei loro migliori allievi, senza alcuna contropartita, ammassandoli al centro tecnico di Riano Flaminio, spremendoli fino al limite in tornei di categoria per età, senza far respirare loro l’aria stimolante del confronto aperto anche col professionismo. Così si è arrivati alla realtà di circoli che poco o nulla hanno da spartire con l’associazione sportiva come è intesa in tutte le altre discipline. Un circolo tennis di media grandezza, con un bilancio annuale di 180mila euro, si mantiene… con il calcetto e destina solo un decimo delle risorse all’agonismo. Il resto se ne va in costi di gestione. La Federtennis, dal canto suo, ha scelto di investire quasi metà del proprio bilancio, pari a 15 milioni di euro, negli Internazionali d’Italia di Roma, senz’altro un’ottima vetrina del tennis mondiale, ma con un ritorno piuttosto dubbio sulla promozione dei tennisti agonisti italiani, cui la federazione riserva solo un quinto del proprio budget. Paragonando il tennis all’atletica, disciplina con cui ha molti punti di contatto, emerge che quest’ultima federazione investe praticamente quasi tutti i propri 10 milioni di euro di budget nell’attività agonistica, e che il Golden Gala di Roma si paga da solo. Ennesima riprova di sana amministrazione e di sani princìpi sportivi. Il sistema tennis-Italia esce nettamente sconfitto anche dal confronto con realtà sportive affini, come Spagna e Francia: il boom del tennis spagnolo (16 atleti classificati nei primi 100 al mondo, 8 fra i primi 50), che solo dieci anni fa era in coda a quello azzurro, è legato a sapienti investimenti della federazione locale sui circoli e sui loro atleti più giovani, cui sono garantiti qualificati servizi, tecnici e sanitari. Il tutto corroborato da un efficace progetto di promozione del tennis nelle scuole. Dal ’78 un tennista azzurro non entra fra i primi 15 nella classifica mondiale: il disastro della retrocessione in serie C di Davis non è un caso, ma l’ultimo capitolo di un progressivo fallimento del tennis maschile italiano. Già, perché quello femminile, con la Farina quindicesima al mondo, va invece a gonfie vele (6 fra le prime 100, 2 fra gli uomini): una incongruenza, in positivo, che dimostrerebbe come la carenza istituzionale possa non essere l’unica causa. Ma sono in molti a sostenere uno stesso paradosso: è vero che emergere con la racchetta al femminile è forse più facile, ma il buon rendimento delle ragazze sarebbe dovuto proprio al fatto che… non hanno ricevuto alcuna attenzione dall’ambiente tennistico italiano, scoprendo da sole che il lavoro quotidiano paga molto più di un cauto isolato a livello giovanile. Grazie anche all’emulazione di modelli come la Cecchini o Raffaella Reggi, tenniste che non hanno disdegnato affatto di restare ad allenare le più giovani, al contrario dei colleghi maschi che hanno preferito ruoli da dirigenti, salvo ottenere risultati quantomeno discutibili. Una significativa testimonianza che le donne possiedono un’arma in più: lo spirito di sacrificio. In uno sport dove spesso il divario tecnico è minimo, la differenza la fa la testa: un aspetto fondamentale perché i campioni nascono per caso, ma i buoni tennisti si possono costruire. In bocca al lupo, Maria Elena.