Il teatro totale di Elena Bono

Finalmente riesco a parlare del teatro di Elena Bono (la maggiore scrittrice italiana vivente, lo ripeto, perché molti che dovrebbero non lo dicono). Finalmente, perché la sua ultima fresca uscita, che comprende due testi, è di così alto livello da consentirmi di fornire al lettore sia una formulazione maturata del pregio di questo teatro – parte cospicua della produzione della Bono, con riconoscimenti in Italia e all’estero -, sia due paginette esemplari che propongo a sostegno e a riprova di quanto dico. La prima pièce, Saga di Carlo V e di Francesco I, è un dramma in sette scene di robusta rievocazione storica per scorci, lampi ed evocazioni prospettiche. La più lunga delle sette scene, la sesta, è un fenomenale dialogo tra un rozzo, ignorante e sapiente fraticello converso e il grande sovrano, ritiratosi in convento, a un mese dalla morte. Confesso al lettore che, senza sforzarmi in nessun modo di interpretare, mentre leggevo quelle incalzanti battute a scambio tra il pover’uomo che non sa niente ma capisce tutto, e il grand’uomo che sa tutto ma finalmente comincia, solo comincia, a capire qualcosa, mi è venuto in mente l’unico nome referente, Shakespeare: qui come lì comico e tragico, ironia e pietà, pesantezza e levitazione della realtà finalmente lasciata libera di farsi vedere sub specie aeternitatis. Fra’ Mansueto è a priori convinto che lo mondo è sempre quello somaro vecchio e scorticato e che cammina come puole; e che a Carlo V è toccata la mala ventura di nascere re. E che colpa tiene esso, poverello? A tutti poteva toccare . Perciò, zappando radici, non fa una piega mentre il sovrano se lo prende come interlocutore privilegiato, con scandalo del gentiluomo di accompagno, confessandogli che forse la sete di potere, il trono lo ha rovinato, e prendendosi l’immancabile lezione: Va’! E qualche buggero ci deve pure star seduto! E qua non teniamo Padre Priore? E allo pollaio non ci sta domine gallo? Che vai cercando? Cangiare lo mondo?. La seconda pièce è una potente rivisitazione della vicenda storica di Giovanna d’Arco, che la notte prima del suo rogo sogna di essere non bruciata viva (lo sarebbe un’altra al suo posto, la strega con cui Giovanna ha un tremendo duello d’anima per salvarla), ma lasciata libera e insieme costretta a sposarsi, per un calcolo politico che non vuole sia gettata ombra, l’ombra di una strega, sul re Carlo che Giovanna stessa ha elevato al trono. Prendendo spunto da un’antica versione borgognona dei fatti storici, Elena Bono con una grande invenzione teatrale- spirituale medita sul confronto tra la grande morte del martire e l’equivalente, anzi per Giovanna ben più torturante prospettiva della piccola morte della testimone oscurata e costretta a versare nello stillicidio dei giorni il sangue dell’anima. Ne nasce una totale reinvenzione di Giovanna d’Arco – nel senso di una più ravvicinata fedeltà alla realtà intima del personaggio, è questa la magia della Bono -, in cui si accampa l’ulteriore spettacolare frutto teatrale del vescovo Cauchon, nella realtà storica giudice condannatore della Pulzella, e in questa onirica, annunziatore- torturatore del nuovo destino di Giovanna; un personaggio potente nel male, un intelligente fantoccio iperclericale serpentino e demoniaco che di cristiano non ha se non le calpestate insegne del proprio potere spirituale piegato alla malizia, al disprezzo e alla non dichiarata – Elena Bono sa farla trasparire non detta – considerazione nichilistica della prigioniera, dell’ intera vicenda umana, e di sé stesso (che è il segno apocalittico del dannato). Questo secondo testo è un compiuto capolavoro, non posso che esemplificarne l’eccellenza proponendone un piccolo squarcio, come del primo. Raggiungo finalmente il punto che volevo rilevare: ecco, lo sguardo drammaturgico della Bono non mira né all’eroe né all’antieroe, non gerarchizza la storia ideologicamente; per lei tutto, cose fatti personaggi, è di equivalente importanza, perché lo sterminato paesaggio della storia è fatto di innumerevoli particolari o dettagli, tutti di uguale dignità in quanto si tratta di creature in moto verso Dio: e Dio, come si sa, si rivela nei particolari, in tutti, non nelle nostre parziali vedute.

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