Il tappeto di Iqbal
Se questa storia fosse una fiaba, forse comincerebbe così: «C’era una volta, tanto tempo fa e c’è ancora, un giovane che aveva un sogno: cambiare il quartiere di Barra, nella periferia di Napoli. Portava una kefiah, come quella di Che Guevara, barba lunga, qualche orecchino. Un talento come attore, ma soprattutto come educatore. Qualche volta si vestiva da clown, e prendeva il nome di Branko, quando insegnava, lo chiamavano “O’ prufessò”. Non riusciva a rassegnarsi nel vedere i ragazzi di questo quartiere finire le loro vite nella droga, sparati o in galera. Così, pensò di fare qualcosa. Sarebbe diventato una specie di pifferaio magico ma all’incontrario: avrebbe attirato i ragazzi non per portarli via, ma per trasformare il quartiere insieme». Ora, siccome questa non è una fiaba ma una storia vera, forse, conviene ascoltarla dalla voce di questo pifferaio magico che, al secolo, si chiama Giovanni Savino ed è educatore nel quartiere di Barra: «La prima parte della storia è cominciata nel 1999, fondammo una cooperativa cui decidemmo di dare il nome de Il tappeto di Iqbal, da Iqbal Masih, un bambino operaio, sindacalista e attivista pakistano che, diventato un simbolo mondiale della lotta contro il lavoro infantile, nel 1995 fu ucciso dalla mafia dei tappeti in Pakistan. Come lui, anche noi volevamo occuparci in un contesto diverso, nel quartiere di Barra, a Napoli, della lotta alle mafie e allo sfruttamento minorile, ma attraverso l’educazione».
Solo che spesso le buone intenzioni non bastano, e succede che anche i bei progetti falliscano. «A quei tempi, Barra era un territorio diviso in due parti: Barra alta e Barra bassa. La cooperativa aveva creato un luogo, un centro di aggregazione che riuniva tutti: per noi ragazzi era bello! Poi, improvvisamente tutto fallisce e ti ritrovo abbandonato per strada…». È Marco Riccio, un ex utente del centro, e oggi vicepresidente della nuova cooperativa, a raccontare il resto della storia. «Barra è un quartiere in cui le scelte che puoi fare sono poche e anche brutte. Rischi di fare quelle sbagliate. Giovanni per me era un mito, mi sembrava il Che Guevara… Quando finì tutto, io ripresi a frequentare la strada. Poi, un giorno, lui mi ripescò e mi chiese se volevo aiutarlo a cambiare il quartiere di Barra». Marco fa una pausa, cerca le parole: «Quando hai il vizio di toccare le droghe, le armi, non è facile smettere malgrado la buona volontà. Lui però mi veniva a ricercare, finchè non ne sono riuscito.Ci ha dato ascolto, ci ha dato importanza, senza usare nulla di sbagliato, un’importanza giusta. È grazie a lui se, per la prima volta ho lasciato ilquartiere, e siamo andati a Pisa per uno spettacolo».
Sì, perché presso il centro del Tappeto di Iqbal si imparano tante cose: teatro di strada, arte circense, persino il parkour. Ma quel che conta prima di tutto non è l’arte in sé ma la pedagogia: «Per noi conta prima di tutto la persona. La persona che viene educata, per esempio con le attività circensi. Da noi non c’è lavoro solo individuale, ed è abolita completamente la competizione», spiega Giovanni. Oggi intorno al centro gravitano una sessantina di ragazzi: «Noi ci riteniamo un po’ dei pifferai. Con noi praticano black dance, parkour, arti manuali. Qualsiasi cosa ti viene in mente di imparare noi te la insegniamo… Ma prima di tutto viene la persona: a noi interessa educare. Ed educare bene come lo facciamo noi, lo fanno in pochi».