Il summit dimezzato
Il Consiglio europeo di Bruxelles del 17 e 18 giugno aveva due obiettivi: approvare il testo della nuovo Trattato costituzionale e nominare il successorie di Prodi alla testa della Commissione europea, organo non solo esecutivo ma vero motore quotidiano dell’integrazione europea, grazie al diritto esclusivo di presentare proposte di legge al Parlamento ed al Consiglio dei ministri, che insieme formano l’organo legislativo dell’Ue. Se il primo obiettivo è stato centrato, per il secondo il vertice ha segnato un flop analogo – a dieci anni di distanza – a quello di Corfù nel ’94, dove i capi di stato e di governo non avevano trovato un accordo e avevano dovuto ripiegare, 15 giorni dopo, su Santer davanti al veto britannico sulla candidatura del belga Dehaene, troppo federalista ai loro occhi. Anche questa volta si torna tutti a casa con un nulla di fatto, e la partita ricomincia da zero. Una partita che si gioca sulle sabbie mobili. Con l’approvazione della Costituzione viene meno l’elemento che, più di altri, ha motivato il rinvio: evitare che il nome del futuro presidente diventi materia di mercanteggiamento, inquinando le trattative, già delicate sul nuovo trattato. Un elemento, non di secondo piano, è poi la posizione del Parlamento europeo: in una sorta di nemesi storica immediata, il Parlamento snobbato dagli elettori, con percentuali record – in negativo – di affluenza alle urne – mostra i muscoli facendo valere il nuovo diritto che il Trattato di Nizza gli ha conferito di votare la fiducia al nuovo presidente della Commissione nominato dai capi di stato e di governo. Il Partito popolare europeo, gruppo maggioritario in parlamento, ha posto un veto preventivo alla nomina di un presidente proveniente da un’altra famiglia politica, come l’attuale premier belga Verhofstadt, che era il più quotato nelle scommesse pre-summit. In realtà i candidati erano tanti, da vari premier in esercizio o ex – oltre Verhofstadt, Rasmussen, Simitis, Schlussel – a Commissari, quali Vitorino, Patten…, al presidente del Parlamento uscente Pat Cox. Tutti incapaci di aggregare la totalità dei consensi, chi perché troppo federalista, chi per aver avuto l’impudenza – agli occhi degli stati intervenuti a fianco degli Usa in Iraq – di opporsi con vigore alla guerra. Un solo nome, da mesi, riscuote l’unanimità: il primo ministro lussemburghese Jean- Claude Juncker. È di gran lunga il premier europeo con più esperienza: ministro da 22 anni senza interruzione, capo del governo da 9, conosce i meandri del funzionamento delle istituzioni ed è un europeista convinto. Sin dall’inizio ha affermato che non tradirà l’impegno preso nei confronti degli elettori lussemburghesi, se rieletto primo ministro lussemburghese. Cosa che è puntualmente avvenuta il 13 giugno, con una vittoria schiacciante dei cristiano-democratici di cui è leader. Nei corridoi del summit, tanti suoi colleghi hanno rimpianto, più o meno sottovoce, il rifiuto di questo collega senza pari ad accettare l’eventuale nomina a presidente della Commissione Ue. Da parte nostra, crediamo che un impegno di fronte a 400 mila elettori vada soppesato seriamente con l’impegno che la storia chiede oggi al più quotato leader politico cristiano in Europa. Ripensaci, Jean-Claude…