Il Sud Sudan alla sfida dell’indipendenza
Lei sostiene che il Sud Sudan non diventerà uno “Stato fallito”: quali sono le risorse su cui può contare?
In parte sull’esperienza degli ultimi cinque anni, in cui ha funzionato di fatto come uno Stato indipendente: ha costruito un governo funzionante da zero, la maggioranza delle persone vive in pace e sicurezza, e i servizi di base stanno lentamente iniziando ad essere forniti. Il Sud Sudan non solo è ricco di risorse – petrolio, acqua, terre coltivabili, bestiame, oro, minerali e legname – ma ha anche una popolazione molto giovane: attirerà investimenti stranieri specialmente con l’adesione alla East African Community (comunità dell’Africa Orientale), un blocco commerciale molto dinamico. Sarà una nazione giovane che si avvia verso lo sviluppo, non uno “Stato fallito”».
Alla luce del ruolo istituzionale che la Chiesa ha ricoperto negli ultimi anni e alla necessità di coordinarsi ora col governo, che peso può avere il fatto che il presidente Kiir sia cattolico – e che solo il 30 per cento della popolazione lo sia?
«Ovviamente è una premessa di buone relazioni, ma la maggior parte dei membri del governo appartiene ad altre confessioni cristiane: tutte le Chiese, quindi, hanno qualche contatto diretto. Il governo è cosciente dell’enorme ruolo che la Chiesa ha ricoperto durante il conflitto, ed è quindi aperto alla cooperazione: ma è ancora presto per dire quale forma assumerà esattamente».
Kiir faceva parte della Sudanese People’s Liberation Army (SPLA), un gruppo di ribelli: al di là dei dubbi avanzati da alcuni sulla reale capacità di un ex guerrigliere di guidare la transizione verso la democrazia, questo fatto potrebbe invece favorire il controllo degli ex miliziani e la loro integrazione nel processo democratico?
«Kiir ha dato prova di essere un politico e un leader molto capace: lo ha dimostrato con il referendum, che si è svolto puntualmente e in maniera esemplare, nonostante gli sforzi del National Congress Party (NCP, Partito Nazionale del Congresso, nel Nord Sudan) perché ciò non avvenisse. La sua linea aperta e conciliante ha favorito l’integrazione di alcuni ex miliziani».
Un ufficiale sud sudanese ha accusato il Nord di pianificare un genocidio come quello del Darfur: non è quindi cambiato nulla? In che misura questo è imputabile ad una mancanza di pressione adeguata da parte della comunità internazionale, come alcuni ritengono?
«Ritengo improbabile che il NCP sguinzagli le milizie come in Darfur: credo continuerà piuttosto con la sua politica di divide et impera, sostenendo le milizie ribelli nel Sud. La comunità internazionale fa i suoi giochi e persegue i suoi interessi, e ha una ben scarsa comprensione della realtà sudanese».
Il petrolio viene spesso nominato come uno dei nodi principali, in quanto i giacimenti si trovano al Sud mentre il Nord controlla gli oleodotti: ritiene che si giungerà facilmente ad un accordo, in quanto entrambi ne beneficerebbero, oppure il Nord userà gli oleodotti come mezzo di pressione?
«Il petrolio non è la causa principale del conflitto, ma indubbiamente è diventato una questione cruciale. Credo che si giungerà ad un accordo, perché entrambe le parti hanno bisogno dei profitti derivanti dal greggio».
In questa fase di transizione, quale ruolo si apre per gli investitori, e quale invece per i donatori?
«C’è bisogno di entrambi. I donatori però dovrebbero prestare maggior ascolto alla comunità sudanese, piuttosto che imporre le loro condizioni. In quanto agli investitori, c’è il rischio che nel vuoto legislativo attuale ne approfittino per “depredare” il Paese: devono dimostrare che stanno portando un valore aggiunto, oltre che perseguendo i loro interessi economici».