Il sublime e il dolore. Quattro domande a Viviana De Marco

In dialogo con l'autrice de "La forza del sublime"
Viviana De Marco
Professoressa De Marco, potrebbe presentarsi brevemente e spiegare come è arrivata agli studi di estetica?

«Ho sempre amato la ricerca. Come molti giovani volevo dare il mio contributo specifico e creativo alla società per renderla migliore, e ho studiato con grande passione filosofia, teologia, storia, le letterature classiche ed europee in lingua originale. Ma sentivo dentro di me l’esigenza e l’urgenza di esprimermi a livello artistico nel teatro drammatico. Pensavo che le pagine della Divina Commedia o delle tragedie greche non dovessero restare sui libri, ma potessero prendere vita attraverso la mia interpretazione. Come attrice volevo dar voce al dolore dei personaggi denunciando le situazioni di violenza e ingiustizia come in Brecht. L’esperienza spirituale del Movimento dei Focolari, la portata speculativa, l’invito fatto da Chiara Lubich a un convegno di giovani a specializzarsi in filosofia, in teologia e nell’arte, la figura di Giovanni Paolo II artista e teologo, il confronto con altri artisti hanno cambiato profondamente il mio modo di fare arte e di fare ricerca, e hanno unificato in me il desiderio di ricercare il vero e il bello nell’arte e in filosofia. E’ questa la radice degli studi di estetica. La peculiarità è che lo speculativo nasce non da un “intellettuale puro”, ma da una persona che vive in prima linea un’esperienza artistica ventennale, condivisa e confrontata con altri e donata al pubblico».

Nel suo studio in Nuova Umanità tratta la differenza tra il bello e il sublime: potrebbe sintetizzarla?

«Credo che il bello e il sublime siano dimensioni inoggettivabili e in qualche modo trascendenti, per cui qualsiasi tentativo di definizione o demarcazione risulta riduttivo e inadeguato. Tenendo presente questo limite strutturale, posso però cercare di indicare una direzione: a mio avviso, il sublime è un’esperienza di bellezza che viene filtrata attraverso l’esperienza del dolore, o per meglio dire, è dolore esistenziale che viene consumato e trasformato in bellezza».  

Se guardiamo all’uso che viene fatto comunemente della parola “sublime”, potrebbe sembrare che il sublime sia una trasposizione del sentimento che chi osserva proietta fuori di sé. Lei pensa che in qualche modo l’esperienza estetica del sublime, che ognuno di noi potrebbe fare, sia una esperienza sentimentale?

 «Il sublime come dimensione soggettiva del sentimento trova posto nel contesto preromantico, dove avviene l’esaltazione dell’individualità e i termini Gefühl (sentimento) e Rührung (emozione) non riportano al sentimentalismo o all’emotività come nel linguaggio abituale, ma indicano una dimensione preter-razionale: Kant afferma che il sublime è un sentimento che nasce dall’incontro tra il soggetto e l’oggetto, e mette in gioco l’armonia di tutte le nostre facoltà nell’incontro con qualcosa che le supera. Non un sentimentalismo, ma una capacità di vedere oltre il mondo della ragion pura. Io direi che il sublime non nasce dal sentimento ma dalla capacità di sentire, nel senso classico del termine estetica, aisthesis: capacità di percepire il bello. Ma è un sentire che non passa solo per i sensi o per il cuore, ma piuttosto per l’anima, direi che è una rara capacità di sentire che avviene in punta di piedi per pochi ineffabili momenti.  Forse Pascal parlerebbe di esprit de finesse!».

All’interno della società contemporanea che esalta la superficialità e spinge lontano dai sentimenti più profondi, è davvero possibile riconoscere il sublime e farsi coinvolgere da esso? Lo chiedo perché se la dimensione del sublime – come lei la descrive – ha a che fare con l’esperienza del dolore, che oggi tutti vogliono evitare, piuttosto che comprendere, come arrivare al sublime?

«Io credo che il sublime non sia una categoria sociologica o una sovrastruttura che è riflesso di un certo tipo di società, ma credo piuttosto che si tratti di una dimensione eterna e universale dell’animo umano. Non penso che la nostra società mediatica ed edonistica sia peggiore di altre, ad esempio della Roma tardo-imperiale, o del mondo ellenistico, in cui Longino per la prima volta parlava del sublime. Credo piuttosto che se il sublime nasce dal rapporto col dolore, rapporto che non si chiude nella disperazione e nella denuncia ma che  viene trasformato, questo è possibile per gli artisti e per gli uomini di ogni tempo, per tutti coloro che riescano ad andare “oltre” la notte e cogliere, per usare un’espressione di Bodei, la dimensione dell’ “invisibile ultravioletto”».
 
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