Il sorriso non paga

Trionfo delle quote rosa. Ha vinto Jasmila Zbanic, una regista bosniaca, con Grbavica, un film che ricorda le violenze della guerra attraverso la storia di una ragazzina che scopre di essere il frutto di uno stupro. Il Gran Premio della Giuria è andato ex-aequo a En Soap, opera-prima della danese Pernilla Fischer Christensen, storia di una donna in fuga da una condizione familiare tutt’altro che invidiabile, e a Offiside dell’iraniano Jafar Panahi, che, pur se firmato da un uomo, sostiene in pieno le ragioni dell’altro sesso. Politica e criminalità, guerra e violenza, inchieste giudiziarie e aule di tribunale dove convergono governanti corrotti, industriali e mafiosi, sono stati gli scenari di questa 56ª Berlinale. A cominciare da Find Me Guilty di Sidney Lumet, dove l’ottantenne regista americano mette in scena un processo di mafia che ha appassionato l’opinione pubblica d’Oltreoceano. Il film è un atto d’accusa nei confronti di un sistema giudiziario che denuncia lati deboli e scappatoie, così da lasciarsi facilmente aggirare da chi ne ha studiato i meccanismi difettosi, ma anche una grottesca e divertente ammissione di come la simpatia di certi mascalzoni sia più forte di ogni altra ragione e riesca a mettere nel sacco leggi, codici e pandette. Regola che se in Find Me Guilty vale per Jack Di Norscio, gangster da quattro soldi ma furbo come una volpe che riuscì a mettersi in tasca l’intera giuria (proprio il contrario di quel che capita in un altro famoso film di Lumet, La parola ai giurati), per estensione può trovare punti di riferimento e casi analoghi in ogni parte del mondo. Come nella Francia di L’ivresse du pouvoir di Claude Chabrol, film che si rifà allo scandalo Elf- Aquitaine, dove rimasero coinvolti non soltanto i vertici dell’importante azienda ma anche un paio di ministri, e che porta allo scoperto il subdolo intrigo tra il mondo degli affari e un potere che per sopravvivere si nutre di corruzione. Un finale abbastanza simile a quello del film di Sidney Lumet, dove tutto finisce in uno sberleffo, stende un velo ironico sull’impotenza di una giustizia che, se da una parte riesce a conservare la sua integrità, dall’altra si trova a combattere con armi spuntate. Ancora l’intreccio politica- giustizia-etica. Sospeso fra documentario e fiction The Road of Guantanamo di Michael Witterbottom e Mat Whitcross (premio per la miglior regia) è un’aspra requisitoria contro il carcere nella base americana di Cuba dove sono rinchiusi i musulmani sospetti di collisione con Al Qaeda. Prigionieri di guerra o criminali della peggior specie? E, anche nel caso si trattasse di terroristi, tanto basterebbe per privare quei detenuti dei più elementari diritti umani? La risposta, in un certo senso, arriva da un altro film inglese, V come Vendetta, opera-prima di Jack Teigue che apre un’altra pagina sul terrorismo, ma anche sul suo uso strumentale allorché è sfruttato per soffocare libertà fondamentali. Tratto dal noto fumetto di Alan Moore, il film è un thriller avventuroso e fantastico sui pericoli mai sopiti di regimi autoritari anche in paesi di consolidata democrazia come l’Inghilterra. Un altro sguardo sul futuro, soprattutto per quanto riguarda la biologia, la clonazione e la fecondazione eterologa, è quello lanciato da Le particelle elementari del tedesco Oskar Roehler, tratto dal discusso romanzo di Michael Houellebecq, dove l’eccesso e la sregolatezza sessuale sono indicati come il tunnel senza uscita nel quale si ficca chi si illude di trovare la piena libertà nell’abolizione di tutte le regole. A contraddirlo ci pensa l’iraniano Offside di Jafar Panahi, dove certe regole – come quella di non lasciare che le donne assistano alle partite di calcio – andrebbero invece abolite senza tanti complimenti. E allora? Se questo è il mondo riflesso dallo specchio del cinema, tanto vale rimpiangere quello che se ne va con A prairie home companion di Robert Altman, che racconta l’ultimo giorno di un’emittente radiofonica, un mondo anacronistico che scompare portando con sé i valori di un tempo. Il vecchio leone mai compromesso con Hollywood ha compiuto ottantun anni proprio il giorno in cui il Festival chiudeva i battenti, ignorandolo del tutto nell’elenco dei premiati. Un amaro commiato a doppia mandata, perché in A prairie home companion nostalgia e commozione, malinconia e humour si rincorrono nell’omaggio alla comunicazione di una volta per ricordare un mondo perduto sul quale vale la pena di spendere qualche lacrima, ma anche più di un sorriso. BREVIFILM Notte prima degli esami. Un commedia fra il comicogrottesco e il serio sulle disavventure di un gruppo di liceali prima della fatidica maturità, alla fine degli anni Ottanta. Oggi mitizzati, ma in fondo, sempre uguali come lo sono i sentimenti e le situazioni buffe dei diciottenni. La vena amarognola percorre il quadro, leggero ma non superficiale – nonostante alcune concessioni al facile bozzettismo – davanti alle prime prove della vita: famiglie non più unite, nonne-mamme, primi amori a rischio, una scuola assente dalla vita reale…Dove i giovani rischiano di diventare più maturi dei loro genitori. Molto bravi i protagonisti Cristiana Capotondi e Nicolas Vaporidis come tutta la squadra – magistrale Giorgio Faletti – in un film che poteva anche osare di più. Regia di Fausto Brizzi; con Giorgio Faletti, Cristiana Capotondi, Nicolas Vaporidis. Arrivederci amore, ciao. Biografia di un criminale a cui il caso assegna la parte di uscire indenne da una vita violenta. Ogni persona incontrata – un poliziotto corrotto, una moglie ingenua – è destinata a soccombere. Sembra che la morte e il destino si siano uniti a delineare una storia dalla morale rovesciata, dall’etica al contrario (in qualche modo come in Macht Point di Allen). Ma, a ben vedere, è il tema dell’infelicità che non paga a scorrere il film tratto dal romanzo di Carlotto che pur nell’eccesso e in una certa qual pretenziosità lascia l’interrogativo aperto allo spettatore. Regia di Michele Soavi; con Alessio Boni, Isabella Ferrari, Michele Placido.

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