Il soliloquio mistico di Berti

Nella piccola cappella di Santo Stefano Rotondo, a Roma, la traduzione in forma scenica de “L’Abbandono alla Divina provvidenza” di Jean Pierre de Caussade
Alessandro Berti

Li porge per condividere, con generosità, libertà e naturalezza. Sono versi intimi, parole d’amore, pensieri alti, chiari e semplici, che affondano nel reale, nella vita personale, nel cammino umano della persona. «C’è un tempo in cui l’anima vive in Dio e ce n’è uno in cui Dio vive nell’anima», recita Alessandro Berti facendo suoi i testi del mistico francese Jean Pierre de Caussade (1675-1751). Ci troviamo ad ascoltarli in una piccola cappella dell’antica chiesa di Santo Stefano Rotondo, a Roma, dove, nell’ambito del festival “I Teatri del sacro”, l’attore emiliano (noto per la ricerca e la sperimentazione di nuovi linguaggi insieme a Michela Lucenti) ha tradotto in forma scenica L’Abbandono alla Divina provvidenza, spettacolo che ha vinto la prima edizione della rassegna di teatro di Lucca.
 
Credibile l’interpretazione di Berti per la purezza di sguardo, per l’espressività gioiosa e profonda, per i toni pacati e penetranti con cui affronta un discorso spirituale non a tutti consono, ma che trova consensi e partecipazione. Coi piedi scalzi, su una piccola pedana rialzata la sua presenza magnetizza. Gli è sufficiente una sedia che si trasformerà in inginocchiatoio; una camicia da indossare sopra la modesta maglia; una ciotola di vetro con delle mele rosse che sbuccerà minuziosamente, offrendole infine al pubblico, per catturare l’attenzione. Con gesti lenti, controllati, essenziali, guarda dentro di sé per poi alzare lo sguardo verso gli spettatori e seguirci rivolgendoci parole che gli affiorano dal cuore.
 
A spiegare l’interesse, fino alla conversione, per questo trattato spirituale, è quanto annota lo stesso Berti nel programma di sala: «La mistica di de Caussade rifugge l’estasi, è una mistica feriale, un metodo per gustare l’ordinario. Come tale, possiede anche una buona dose di saggezza». E continua chiedendosi: «Com’è possibile che proprio l’abbandono (che, almeno a parole, sembra qualcosa di ottuso, fin rassegnato) contenga in sé invece il massimo di conoscenza delle cose? Perché di questo si tratta: de Caussade ci mostra, tenace come una goccia sulla roccia, che proprio questa passività apre le porte al più profondo imparare e a un’attività finalmente purificata. Il suo punto di vista è quello umano, umile, basso. Divina provvidenza qui è la percezione immediata e a ogni istante di quanto sia provvida la vita se la si guarda negli occhi, di come Dio parli continuamente attraverso la creazione e di che margine vertiginoso di ulteriore leggibilità abbia ancora il mondo, a saperlo guardare». Quindi: «Se è vero che solo un’ascesi portata fino in fondo può essere il presupposto di un’unione mistica, è però altrettanto vero che nemmeno questa unione è il punto di arrivo e che solo i frutti di un amore praticato testimonieranno infine la veracità di questo cammino». Riflessione che intercetta i pensieri del pubblico.
 
Drammaturgicamente – dato che si tratta di messa in scena, seppur particolare per via di un testo che teatrale non è – nel lavoro di Berti sembra manchi un più serrato accordo tra testo e scrittura scenica, col rischio di risultare, a momenti, solo predicatorio. Un lavoro comunque lodevole che coincide con quella che potremmo definire la “mistica dell’attore”, ovvero quel calarsi pienamente nella contemplazione del presente, nella povertà di sé per donarsi allo spettatore, facendosi tramite di “altro”. Qui Berti vuol dirci le stesse parole dell’autore: e cioè che «Dio parla ancora oggi come parlava un tempo ai nostri padri, quando non c'erano né direttori spirituali né metodi». Per chi vuole e sa ascoltare.
 

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