Il sogno di Sadiq
«La data la ricordo bene: sono partito il 10 ottobre 2015. Non avrei mai immaginato che nella mia vita avrei dovuto affrontare un viaggio del genere ma ho dovuto farlo, dopo che in un attentato in moschea, aveva trovato la morte anche mio padre».
Sadiq ha 24 anni e proviene dal territorio di Mohmand Agency, sulla frontiera nord occidentale del Pakistan al confine con l’Afghanistan, un’area nominalmente amministrata dal governo pakistano ma di fatto controllata dalle tribù Pashtun che vi abitano, costantemente minacciata dalla presenza talebana. «Eravamo in novanta a bordo di un camion. Poi, siamo scesi e abbiamo camminato per circa venti ore, per attraversare il confine con l’Iran…» mentre parla, si sente lo sforzo di superare quel nodo che gli blocca la voce in gola: «faceva tanto freddo, eravamo senza cibo né acqua…».
Mi dispiace Sadiq – lo interrompo – che le mie domande ti facciano rivivere quella sofferenza, scusami. «No. Invece, grazie di interessarti alla mia storia. Si deve sapere quello che viviamo». Così, Sadiq mi racconta della sua vita sul confine afghano. A quei tempi, ha 22 anni. Grazie al diploma in Scienze Internazionali, inizia a lavorare per conto dell’UNHCR, l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite. Lavoro che però non è visto di buon occhio dai talebani, che cominciano a minacciarlo: «Quando lavori con una realtà internazionale, non musulmana, non sei ben visto dalla gente, e con “gente”, intendo i talebani. Così, hanno iniziato a minacciarmi: devi smettere di lavorare con loro, se non lasci il lavoro, ti faremo del male»
Lì per lì, Sadiq non dà importanza a quelle provocazioni che, spiega, erano comportamenti usuali e quotidiani nel suo paese. Poi, però, i talebani allargano le minacce anche alla sua famiglia e, un giorno, trova la sua auto manomessa: «A quel punto ho capito che non si trattava più solo di intimidazioni, ma che erano passati ai fatti e volevano davvero uccidermi!».
Poi succede che suo padre perde la vita durante un attentato in moschea. A quel punto, Sadiq decide di partire, affidandosi ai trafficanti di esseri umani. Dopo l’Iran, il suo viaggio continua attraverso la Turchia, fino a Bodrum, sulla costa occidentale. Qui, viene caricato a bordo di una piccola barca, con altre dieci persone e, malgrado la precarietà dell’imbarcazione, riescono ad attraversare il mar Egeo e a raggiungere la costa greca.
«Mi sono sentito fortunato, perché, a quel punto, la Germania aveva aperto i confini, e così abbiamo potuto attraversare regolarmente, prendendo autobus e treni, la Macedonia, la Serbia, la Slovenia, fino in Austria». Da lì, Sadiq decide di raggiungere l’Italia. Arriva a Gorizia, via Udine. «Mi ricordo benissimo quella notte. Era sabato, il 14 novembre 2015, verso le ventitré. Una giovane volontaria ci ha mostrato il posto di polizia, noi siamo entrati, la polizia ci ha controllato i documenti e poi ci ha dato dei fogli da riempire».
Li fanno uscire. Fuori è freddo e piove. Sadiq e il suo compagno di viaggio si mettono alla ricerca di un posto dove trascorrere la notte. Trovano solo una cabina telefonica dove si addormentano, stremati. «Il giorno dopo, abbiamo incontrato altri rifugiati, che vivevano a Gorizia, e che ci hanno portati con loro, nella giungla».
Non sono sicura di aver capito bene, eppure ha proprio detto “the jungle”. Lo interrompo, e gli chiedo cosa è questa “giungla”. Così, scopro che molti dei migranti che arrivano a Gorizia si rifugiano nel piccolo bosco accanto alle spiagge di ciottoli che costeggiano le acque del fiume Isonzo, bosco che hanno ribattezzato “the jungle” appunto. Sadiq passa lì quattordici giorni: «Trascorrevamo la giornata nella giungla e la notte in tenda. Ricordo che non smetteva mai di piovere, quel novembre, la tenda era sempre zuppa: sotto, sopra, anche le nostre coperte. Per lavarmi, entravo nelle acque gelide dell’Isonzo…».
Finalmente, Sadiq trova posto al CARA di Gradisca e da lì, le cose per lui cominciano a prendere una piega inaspettata. Sadiq sostiene un colloquio con una psicologa che, notando il suo curriculum, gli chiede se vuole continuare i suoi studi. Sadiq risponde di sì. Così, prima arriva l’opportunità di un lavoro presso la biblioteca del Centro internazionale di Fisica Teorica Abdus Salam (ICTP) e poi, la possibilità di iscriversi all’Università di Trieste.
«In Pakistan, io studiavo ingegneria civile e avevo un diploma in scienze internazionali. Ora, a Trieste, frequento un master in relazioni internazionali!». È felice Sadiq, perché ha ricominciato a studiare e può lavorare, ma anche: «Perché abito in un posto sicuro. Qui, sono libero di andare ovunque, di parlare con chiunque… Posso esprimere le mie idee con la gente, senza che per questo mi succedano cose brutte».
Quale è il tuo sogno Sadiq?
«Il primo sogno è quello di finire i miei studi. Ma il sogno più grande, è quello di fare qualcosa per il mio paese, per i giovani del mio paese. Perché non soffrano quello che ho passato io. Perché possano un giorno vivere in un paese sicuro come quello in cui vivo io. Questo è il mio sogno. Io, qui, sono al sicuro».