Il sogno di Radegonde
Sono accorsi da tutta Europa per stringersi attorno alla vedova ed ai figli di Juvénal Ndayikeza Non si erano più visti dai tragici eventi dell’ottobre ’93, che avevano insanguinato il Burundi, costringendo centinaia di migliaia di persone a fuggire. Tra queste, Radegonde ed i suoi quattro figli, ancora bambini. Dieci anni fa, tra i neo-responsabili del governo del Burundi, i primi ad essere eletti con elezioni democratiche, c’era anche suo marito Juvénal, allora ministro degli Interni. Fu trucidato assieme al presidente Melchior Ndadaye. Radegonde, avvertita in tempo, riuscì a scampare all’eccidio. Al termine di un lungo periplo, arrivò infine a Caserta, dove trovò il coraggio di ricostruirsi un’esistenza. Michel e Régis frequentano ora con profitto le nostre scuole superiori; Bélyse, la maggiore, studia scienze biologiche all’università; il piccolo René, di dodici anni, deve essere sottoposto a continue cure per una grave forma di anemia che gli ha provocato un ritardo nella crescita e disturbi motori. Non deve essere davvero facile per una donna africana far crescere quattro ragazzi senza papà, per giunta in terra straniera. Per mantenerli, si è dovuta adattare ai lavori più umili, pur essendo laureata. Da poco giunta in Campania, ha conosciuto la comunità locale del Movimento dei focolari, facendo presto suo lo spirito dell’unità. E a contatto con questa donna di così grande forza morale, ciò che maggiormente sorprende è quel suo sguardo mite ed allo stesso tempo determinato, quel sorriso sereno che le rischiara il viso e comunica attenzione per l’altro, lo fa sentire importante, perché tale lei lo reputa. Mi riceve con squisita cortesia nella sua attuale abitazione, al quarto piano di un quartiere popolare di Caserta. Unico segno del tempo trascorso, il ritratto di suo marito Juvénal, che campeggia nel modesto soggiorno. Con voce piana, Radegonde inizia a dipanare la matassa degli accadimenti di una vita duramente provata, nella tragedia che ha sconvolto il suo paese. Dieci anni fa – dice – sembrava aprirsi per il Burundi una nuova stagione: per la prima volta furono indette libere elezioni. Mio marito che, dopo essersi laureato in Belgio, aveva trovato lavoro in banca, si gettò con passione nella campagna elettorale. Percorse in lungo ed in largo l’intero paese, per spiegare alla popolazione gli elementi fondamentali della democrazia. Parlava soprattutto di dignità, una parola nuova per la nostra gente. Con una grande affluenza alle urne e col consenso del 70 per cento degli elettori, salì al potere una nuova leadership politica. Quell’esperienza di democrazia, come si sa, ebbe vita breve. Nell’ottobre di quello stesso anno, un colpo di stato eliminò nel sangue i vertici del partito scomodo, il Frodebu. Uno stillicidio di un’intera classe dirigente, con conseguenze devastanti, come si sarebbe visto ben presto. Quel 21 ottobre tutto cambiò. Io quel giorno ero ricoverata in ospedale – prosegue Radegonde – e debbo a questo fatto di essere ancora in vita. Naturalmente non tornai a casa, mi nascosi in un luogo sicuro ed infine, con un lasciapassare ottenuto dal vescovo, potei riabbracciare i miei figli. Da quel momento iniziò la fuga di Radegonde. Dapprima in Ruanda, poi in Congo. Non posso dire quante persone ci furono vicine in quel periodo. A loro devo tutto, forse la vita. Soprattutto quella del piccolo René, che nel frattempo aveva contratto questa forma di anemia. Era rimasto in coma per tre giorni, e quando si risvegliò, aveva perso la parola. Una famiglia amica del Belgio mi aiutò ad espatriare in Europa, ed avendo saputo che solo in Italia era possibile avere delle cure adeguate per la malattia di René, siamo venuti qui, prima a Benevento, e poi a Caserta. È a Benevento – interviene Régis, un simpatico ragazzone di 19 anni, carico di energia, con un italiano dal più schietto accento napoletano – che ho incontrato i giovani dei Focolari. Mi è piaciuta molto la loro vita, e tra loro ho trovato i miei migliori amici. La presenza viva e discreta di tante persone amiche rende ora meno amaro il loro esilio. Sono stati gli amici casertani ad intuire, e a rendere possibile, un desiderio che da tempo Radegonde teneva chiuso nel suo cuore. Avevano saputo che nella cultura burundese vi è una cerimonia particolare, che si celebra a distanza di un anno dalla morte di una persona cara. Amici e parenti si ritrovano per un giorno sotto lo stesso tetto per ricordare chi è scomparso, smettere i panni del lutto e vestire quelli della speranza. Da dieci anni Radegonde custodiva questo sogno, anche se la sua realizzazione pareva impossibile. Invece questo sogno si è avverato nel luglio scorso. Gli amici ne avevano parlato tra loro, coinvolgendo l’intera comunità cristiana della città. Dal vescovo, mons. Nogaro, al loro parroco Francesco Errico, a varie famiglie che si sarebbero fatte carico di ospitare per qualche giorno i parenti e amici, attesi da ogni parte d’Europa e dal Burundi. Ma lasciamo a Luca Fasano, tra i promotori dell’iniziativa, il racconto di quanto è accaduto: La giornata ha avuto inizio con la messa, concelebrata da sacerdoti italiani e burundesi. Nel corso della celebrazione, in lingua italiana e francese, i figli di Radegonde hanno voluto esprimere un sincero e commovente ringraziamento a tutta la comunità convenuta, e in particolare ai tanti amici che in tutti questi anni li hanno aiutati ad inserirsi in un tessuto sociale, nel quale un’assurda guerra li aveva catapultati . Più tardi, questa piccola comunità multietnica, nella quale spiccavano gli splendidi vestiti delle donne burundesi, si è trasferita nell’attigua Tenda di Abramo, la struttura diocesana per gli interventi della Caritas. Mai quel nome era parso così azzeccato! Il caldo era opprimente, soprattutto – prosegue Luca – per gli elegantissimi amici del Burundi, che scherzosamente ci accusavano di averli convertiti alla giacca e cravatta, mentre noi sfoggiavamo delle più pratiche polo. Così, mentre loro mostravano di gradire le nostre insalate di riso e le pizze ripiene, noi abbiamo avuto modo di gustare pesci alla brace e banane al forno. È stata una gara, e una scoperta nell’accorgerci di avere tante cose in comune, pur così diversi. I bambini, soprattutto, hanno contribuito non poco a favorire questo clima, integrandosi subito tra loro senza difficoltà, giocando e correndo insieme per tutta la giornata. Ci siamo ritrovati amici, fratelli, oltre il colore della pelle, almeno per un giorno. Ma è stata per ciascuno un’esperienza troppo forte e coinvolgente, che ora continuano a vivere nella normalità della vita, tra le pieghe della quotidianità.