Il sogno di Osman

“Dio sa chiederci il dolore per rendere più salda la fede e dare un senso alla vita. Ma quale senso ha avuto la vita di una giovinetta, nata cristiana in una terra cristiana e dalla sventura trascinata a un’altra fede in una terra completamente diversa? Forse la risposta è nella mia vita, in ciò che ho fatto e avrei potuto compiere solo se fossi stato più degno della missione affidatami, solo se gli uomini avessero compreso appieno il significato politico, storico e religioso del mio temerario tentativo; non mio, ma ispiratomi da Colui che tutto sa e tutto vede”. Così va meditando il giovane frate Domenico Ottomano, nei momenti di tregua di una febbre malarica che gli sarà fatale. Egli altri non è che Osman, erede del sultano di Istanbul, preso come ostaggio – bambino di appena due anni – dai cavalieri di Malta mentre insieme alla madre era diretto alla Mecca sulla galea imperiale per adempiere ad un voto paterno. Lei stessa, a sua volta, un tempo Giacometta ed ora Zafira, aveva un passato tempestoso: nell’agosto del 1620, durante la presa di Manfredonia da parte dei turchi (la vicenda è ambientata nel XVII secolo), era stata rapita bambina e condotta schiava nel Topkapi di Istanbul, per divenire in seguito la favorita di due sultani, al secondo dei quali aveva dato l’atteso erede: Osman appunto. Quel figlio, educato nella sua nuova patria al cattolicesimo quasi per un gioco della sorte, ed entrato fra i domenicani, diverrà l’uomodella mediazione – ecco la sua “missione” – per espiare le colpe dei seguaci di Cristo e di Maometto. In che modo? Su richiesta della Curia di Roma, sostenuto dalle corti europee e da Venezia, tenterà audacemente di farsi eleggere sultano dell’impero d’oriente. Non è certo per brama di potere: nel suo ambizioso disegno diunificazione, infatti, sogna di porre fine all’espansione turca in Europa e raggiungere la pace tra islam e cristianesimo, per realizzare l’incontro tra due fedi, una possibile convivenza tra le due religioni. Osman ritiene che l’avversione tra esse sia “frutto di superbia” e vorrebbe vedere, lui che ha sangue islamico e fede cristiana, “gli uomini di tutta la terra, come i gigli del campo e gli uccelli del cielo, liberi e senza paura “. Ma il suo sogno “di unire oriente e occidente, Roma e Costantinopoli, la voce delle campane a quella dei muezzin” è vanificato dagli intrighi di corte e dal clamore di una battaglia, che sembra non voler mai finire. Questa, in sintesi, la vicenda narrata dallo scrittore, poeta e saggista pugliese Cristanziano Serricchio ne L’islam e la croce (Marsilio): un superbo romanzo in cui storia e invenzione s’intrecciano sapientemente, ricco di battaglie e di intrighi politici, ma che lascia anche spazio alla riflessione. Emblematico l’episodio, durante il sacco di Manfredonia, in cui un bibliotecario di corte al seguito dell’armata turca si sofferma a leggere i manoscritti conservati nel palazzo arcivescovile: “Com’è assurda – pensò – la battaglia che fuori si combatte contro la vita. Non c’è violenza, né odio, né distruzione, né desiderio di sangue e vendetta nei libri”. Da quei fatti di sangue remoti L’islam e la croce ci riporta – ed è qui l’attualità del suo messaggio – ad un oggi ancora funestato da guerre di religione, in cui il dialogo tra fedi diverse, pur fra alterne vicende, sta diventando l’aspirazione di una sempre più vasta schiera di uomini di buona volontà. “L’odio, la vendetta, la guerra eterna tra due fedi hanno bisogno di tempo perché gli uomini prendano consapevolezza della loro assurdità” è la conclusione a cui arriva, nel romanzo, Osman-fra Domenico. Che sia giunta finalmente quell’ora?

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