Il sogno dei poli
Di recente una perforazione della calotta antartica ha raggiunto i 3.270 metri di profondità. La carota di ghiaccio che è stata estratta raccoglie le nevicate degli ultimi 900 mila anni: un archivio del clima di straordinaria importanza. Rispetto al clima – spiegano i ricercatori italiani autori dello studio -, l’Antartide è un luogo di osservazione privilegiato: le variazioni climatiche, i gas e le polveri presenti nell’aria rimangono, per così dire, registrate all’interno della massa glaciale, rendendo possibili successivi studi e analisi. Studi sul clima che hanno trovato nuova attualità mediatica anche nell’ambito di una ipotetica fase di surriscaldamento del pianeta dovuta all’effetto serra: l’evento potrebbe portare allo scioglimento di una quantità consistente dei 33 milioni di chilometri cubi di ghiaccio dell’Antartide, innalzando così di 70 metri, se si fondesse in toto, il livello di tutti i mari, con conseguenze facilmente intuibili anche da un profano. La calotta di ghiaccio trattiene il 68 per cento dell’acqua dolce dell’intero pianeta. Agli oltre 3000 metri di spessore del ghiaccio antartico corrispondono i soli due, tre metri di ghiaccio marino del Polo Nord, ma per un’identica superficie di 14 milioni di kmq: Insieme rappresentano i pozzi di calore del nostro pianeta, i luoghi in cui viene dissipata l’energia in eccesso proveniente dalle zone equatoriali, processo che mette in movimento correnti atmosferiche ed oceaniche di grande complessità. A nemmeno un secolo dalle vittoriose spedizioni ai poli, il primato della scienza non sembra concedere più nulla all’esplorazione romantica. Se però la scienza ha preso, in certo qual modo, possesso di questi spazi geografici la nostra comprensione di questi luoghi rimane incompleta, e vivo rimane il desiderio di esplorazione dei poli. Oggi si può fruire di crociere organizzate di 14 giorni verso l’Antartide (si salpa da Ushuaia in Argentina), con i nostalgici di Shackleton invitati a rileggersi il suo libro seduti in una cabina di lusso su una nave ad alta tecnologia. Ed esistono voli organizzati dalla Russia e dal Canada fino nel bel mezzo del pack artico. Eppure si tratta di una esplorazione che solo in parte si esaurisce nei toni commerciali imposti dalle agenzie di viaggi. L’avventura dei poli non finisce dove terminano i gradi di latitudine, ma si espande nello stupore, dentro spazi di ghiaccio incomprensibili. Bellezza e sgomento si mescolano indistinti, soprattutto in chi vi si è avventurato da solo, compiendo imprese al limite delle possibilità umane. L’errore più comune nel giudicare le avventure polari è puntare l’attenzione sull’immane sforzo fisico e sulla resistenza psicologica necessari per venire a capo dei mesi di marcia. Il punto focale è invece ciò che si sviluppa nell’uomo. Chi torna da un polo con un nuovo record nello zaino non è un vincitore: non potrà più vivere a casa e stare tranquillo, gli mancherà sempre qualcosa di indicibile. Sia Shackleton che Amundsen sono di fatto tornati fra gli iceberg per morire. È qualcosa che scava nel profondo, molto più dell’irrinunciabile passione per l’alpinismo: se quest’ultimo fa parte ormai del nostro mondo ed offre possibilità di condivisione e di analisi, l’esperienza dei poli si riferisce ad un mondo non umano, vissuto da pochissimi. E questi pochissimi hanno avuto un solo obiettivo: provarci, prima o poi, da soli, possibilmente senza collegamento satellitare, un laccio tecnologico che li disturba. Una grande montagna sta tutta su una fotografia e si può disegnarci sopra una via. Una carta con il tracciato di una traversata non dice nulla, perché nessuno può vedere con i propri occhi una realtà di quella grandezza. L’Antartide ha richiesto a Borge Ousland due mesi in solitaria, per attraversarne a piedi e sugli sci, tirando una slitta di due quintali, i suoi 3.000 chilometri di diametro. A Mike Horn sono stati necessari 22 mesi di solitudine, per coprire a piedi, sugli sci o in barca, sempre con slitta al traino, i 30 mila chilometri di periplo del Circolo Polare Artico. È interessante, nella storia delle esplorazioni polari, che non vi abbiano quasi mai partecipato da protagonisti gli unici uomini che all’Artide sono appartenuti sino in fondo, dalla nascita alla morte: gli inuit oppure i nomadi delle coste siberiane. I poli, come meta, sono stati inventati da estranei, da occidentali convinti di potersi addentrare in quei mondi sconosciuti forti della presunta superiorità culturale e tecnologica, finendo per implorare il cibo in ginocchio ai cacciatori indigeni. Indigeni che per la distruzione del loro stile di vita e della loro cultura, che erano una cosa sola, sono oggi costretti a lottare più contro alcolismo e la tentazione al suicidio che con la via per il polo. Il fatto è che una corsa sul pack fin sotto la stella polare non li ha mai attratti perché essi erano tutt’uno con l’Artico: perché avventurarsi nella banchisa deserta e lasciare la costa popolata di foche, balene, uccelli, orsi con cui vivere? È la nostra ignoranza a rendere i poli così interessanti: è l’abisso che esiste fra occidentali e inuit sulla consapevolezza del territorio a doverci far riflettere.