Il silenzio della politica sulle stragi

Le presunte collusioni tra Stato e mafia al centro del nuovo processo per la strage di via d’Amelio. Per i magistrati la strategia della tensione non è mai cessata
La strage di via d'Amelio

Il giudice  Paolo Borsellino, ucciso insieme ai cinque uomini della sua scorta il 19 luglio del 1992, era a conoscenza dell’esistenza di una trattativa tra lo Stato e la mafia e ne subì tutta la tragedia.
«Ricordo che Paolo – ha detto nella sua testimonianza  il magistrato Alessandra Camusso –, anche questo era insolito, si distese sul divano e mentre gli sgorgavano delle lacrime dagli occhi disse: “Non posso pensare che un amico mi abbia tradito”». Non fece alcun nome, ma la vedova del giudice ha raccontato che il marito, che collaborava con il generale Subranni, le confidò di essere sconvolto dopo aver saputo di “sue presunte collusioni con la mafia”.
 
A forza di parlare di trattativa tra Stato e mafia, sembra che  chiunque in questo Paese possa trovare normale parlarne,  come se fosse un reato, sgradevole e terrificante, ma un reato come gli altri. E invece qui ci troviamo davanti a un mostro che ha paralizzato, ucciso, scompaginato la storia della Sicilia e forse dell’Italia. Questo, non dobbiamo mai dimenticarlo.
L’otto marzo viene annunciata la  svolta nelle indagini sulla strage di via d’Amelio. Dopo la rivolta dei Forconi, dopo le primarie “al veleno” vissute a Palermo, sulla città si abbatte anche questo ulteriore shock. Nella notte, infatti, su ordine del procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari,  la Dia  ha eseguito  quattro ordinanze di custodia cautelare in carcere al capomafia palermitano Salvatore Madonia, considerato uno dei mandanti della strage, a Vittorio Tutino, che insieme al neo-pentito Gaspare Spatuzza rubò la 126 poi riempita di tritolo, a Salvatore Vitale, presunto “basista”, tutti già detenuti e all’ex pentito di Sommatino (Cl), Calogero Pulci, accusato di falsa testimonianza.
 
«La strategia della tensione non ha mai abbandonato l’Italia», ha detto il Procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso nella conferenza stampa. «Emerge la prospettiva di una strategia stragista – ha aggiunto Grasso – che partendo dallo spartiacque dell’omicidio  Lima (marzo 1992), arriva fino alla mancata strage dell’Olimpico (gennaio 1994)». Parole dure, anche quelle del procuratore di Caltanissetta Sergio Lari: «Questo non è un punto di arrivo, ma di partenza. Ci sono ancora tante circostanze da chiarire, a partire dai concorrenti esterni, come l’uomo estraneo a Cosa Nostra presente nel garage quando i mafiosi sistemavano l’esplosivo nella 126».

La presunta trattativa  parte dall’omicidio, avvenuto il 12 marzo 1992, del politico siciliano Salvo Lima, già sindaco della città, europarlamentare e capo corrente andreottiano in Sicilia. Il 23 maggio dello stesso anno, sull’autostrada Palermo-Trapani, vicino a Capaci, viene fatta esplodere l’intera carreggiata su cui transita l’auto blindata con a bordo Giovanni Falcone. Con lui muoiono la moglie  e tre agenti di scorta. A giugno dello stesso anno iniziano i contatti tra Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo, e i carabinieri del Ros. Il 28 giugno viene nominato ministro dell’Interno Nicola Mancino, al posto di Vincenzo Scotti. Borsellino incontra il magistrato Liliana Ferraro che lo informa di contatti tra esponenti di Cosa Nostra e apparati dello Stato. Infine, il 29 luglio viene fatta esplodere in via d’Amelio una Fiat 126 imbottita di tritolo, che uccide il giudice Borsellino e cinque agenti della sua scorta. Nella notte il ministro della Giustizia Claudio Martelli firma il 41 bis (il cosiddetto carcere duro) per oltre 300 mafiosi che vengono inviati nei penitenziari di Pianosa e l’Asinara.
 
Il 15 gennaio 1993 viene arrestato Totò Riina, il boss corleonese ritenuto il capo della Cupola. Il 14 maggio fallisce un attentato in via Fauro a Roma contro il giornalista Maurizio Costanzo. Due settimane dopo esplode un’autobomba nel centro di Firenze: cinque morti e 48 feriti. Viene danneggiata la Torre dei Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili. Il 26 giugno 1993 il Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria) propone al nuovo Guardasigilli, Giovanni Conso, di non prorogare il carcere duro per 373 mafiosi. Il  27 e 28 luglio 1994 esplode un’autobomba a Milano, in via Palestro, provocando cinque morti. Poco dopo la mezzanotte a Roma vengono fatte esplodere due bombe a San Giorgio al Velabro e San Giovanni, provocando 22 feriti. Nel novembre 1994, il ministro della Giustizia Giovanni Conso decide di non prorogare il regime di “carcere duro” per oltre 300 detenuti accusati di mafia. Fin qui le tappe di una storia tragica.
 
I magistrati di Caltanissetta, descrivendo quegli anni, così affermano: «Rimane accertato un quadro certamente fosco  di quel periodo della vita democratica di questo Paese. Che poi vi fosse una diffusa stanchezza della politica per le iniziative legislative antimafia adottate negli anni 1990-92, purtroppo è parimenti certo».
Il cuore della questione resta il silenzio della politica. In genere rissosa e talvolta chiacchierona, su quegli anni e su quegli argomenti si mostra particolarmente riservata se non addirittura muta, indecentemente silenziosa.
Ricomincia il processo sulla strage di via d’Amelio e viene da chiederci quando questa terra troverà pace e giustizia. Quando questa terra potrà finalmente pensare al suo futuro e non terrorizzarsi ed essere ostaggio dei fantasmi del suo passato, che diventa eterno presente. Fino a quando, insomma, dovremo, con le lacrime agli occhi –, come accadde a Borsellino quel pomeriggio –, e con le mani stanche, separare il grano dal loglio?

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