Il signor uno per mille

Un affermato imprenditore cade nel giro dell’usura ma denuncia i suoi aguzzini, che ora sono in carcere.
Antonio Anile

Dei calabresi, Antonio Anile incarna molte qualità: affabilità, sincerità, amicizia. E dire che la sua vita avventurosa è passata per comportamenti, a suo dire, malavitosi.

Di bassa statura, i lineamenti mediterranei, con i capelli neri a caschetto, Antonio Anile tradisce il suo sofferto passato da un fremito incontrollabile del ciglio destro. Un battito d’ali di tensioni mai del tutto assorbite.

Imprenditore assicurativo affermatosi a Milano, Antonio Anile, oggi cinquantottenne, torna nella sua Reggio Calabria, dopo la scomparsa del padre, per restare vicino alla sua famiglia ben radicata nella borghesia cittadina e del tutto estranea a ogni connivenza con la criminalità. Dopo i primi anni di successi e guadagni consistenti per l’epoca – siamo negli anni Novanta –, comincia il declino. Gli affidano un’agenzia di Crotone che sta andando in fallimento e un subagente di Cirò crea un buco economico di decine di milioni delle vecchie lire.

 

«Non avevo i soldi per salvare l’azienda – racconta Antonio – e mi propongono le dimissioni senza liquidazione». A 43 anni si ritrova a spasso, ma è un uomo pieno di risorse e capacità. Entra nel multilevel marketing, una specie di catena di sant’Antonio applicata alle vendite. «Se sei positivo con te stesso – spiega Antonio – riesci a vendere anche agli altri, perché in definitiva si vende sé stessi». Gli affari vanno bene e cambia anche società, dove firma un contratto migliore: più alto lo stipendio, più provvigioni, più spese rimborsate. Ma questo tipo di aziende – studi economici lo dimostrano –, a un certo punto implodono. I profitti calano e si accumulano debiti per 130 milioni di lire. Antonio chiede, per salvare l’azienda, un prestito di 100 milioni a tre colleghi dell’area ionica, non sapendo che due di loro sono affiliati alla ’ndrangheta, «che li recuperano – chiosa Antonio – da amici di amici, perché un usuraio non dice mai in prima persona che è lui a darti i soldi».

Versa i soldi all’azienda, ma fallisce lo stesso. E in sei mesi deve restituire la cifra avuta con un interesse del 10 per cento mensile, che raddoppia in caso di ritardo. In totale, a fronte di 100 milioni avuti, deve versare per i ritardi accumulati un miliardo e 250 milioni di lire. È il suo grande errore, di cui si pente amaramente e che lo trascina in una spirale senza fondo. «Sono caduto nella trappola. Provo una grande vergogna e amarezza, ma è ricomparsa la mia dignità che non ha prezzo».

 

Dopo minacce, pestaggi selvaggi, ha ancora dei segni nelle braccia, viene rapito per otto ore e portato in Aspromonte dove gli viene risparmiata la vita solo per poter far fronte al debito da pagare. Denuncia i suoi aguzzini «non perché sono un eroe, ma per disperazione». Dopo la denuncia «diventi un appestato e nessuno ti saluta, ti guarda, ti dà lavoro»; Antonio rischia il suicidio e va avanti grazie agli antidepressivi. I suoi aguzzini ora, però, sono in carcere e per altri il processo è ancora in corso.

 

In Italia, solo un imprenditore su mille denuncia il racket e l’usura. Uno su mille ce la fa e Antonio ora spende la sua vita come volontario di Sos Imprese per aiutare altri imprenditori a non cadere o a uscire dal giro dell’usura. «Denunciare – conclude – è un puro atto di fede verso Dio, verso la vita e oggi si deve fare di più per educare i giovani alla legalità».

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