Il significato della libertà per Shalit
Il rilascio del caporale israeliano ha implicazioni che vanno oltre il semplice scambio di prigionieri: in dialogo con Pasquale Ferrara
Dopo cinque anni, la prigionia di Gilad Shalit si è conclusa: lo scambio del caporale israeliano con 1027 detenuti palestinesi, pur tra le polemiche, è cosa fatta. I primi 447 – tra cui alcuni in cella per crimini quali omicidio, o complicità in attentati suicidi – sono già stati rilasciati, mentre gli altri torneranno in libertà in una seconda fase. Ma al di là delle legittime domande sull’opportunità di far uscire di prigione queste persone, o sulle perplessità in merito all’entità dello scambio, l’accordo ha un significato politico non trascurabile. Dopo la salita alla ribalta dell’Onu di Fatah, col tentativo di ottenere il riconoscimento dello Stato palestinese nell’agorà per eccellenza della politica internazionale, questa volta i riflettori sono puntati sull’oltranzista Hamas: è loro, si dice, il merito del successo dei palestinesi, che hanno ottenuto ciò che volevano. La forza insomma, non la diplomazia, garantirebbe qualche risultato. Che cosa aspettarsi, dunque, per lo scenario mediorientale? Lo chiediamo a Pasquale Ferrara, esperto di relazioni internazionali.
Il raggiungimento di un accordo sulla liberazione di Shalit sembra rendere ancora più profondo il solco tra la linea dura di Hamas e quella diplomatica di Fatah: che conseguenze può avere questo non solo sul fronte interno ma anche internazionale, soprattutto dopo gli ultimi sviluppi in sede Onu?
«Al di là delle valutazioni etiche, questo accordo rappresenta una novità significativa sul fronte politico: finora infatti Israele aveva negato qualsiasi possibilità di negoziare con Hamas, mentre questa volta ha acconsentito a “trattare col nemico”, superando l’approccio strettamente militare. . Ciò non significa che Hamas venga riconosciuto come interlocutore legittimo, ma ciò di cui si prende coscienza che talvolta è necessario trattare per risolvere specifici problemi. In quanto alle divisioni tra Fatah e Hamas, c’è in gioco una partita per la leadership, nella quale entrambe le parti hanno fatto mosse rilevanti: l’ultima era stata appunto quella di Fatah, che ha chiesto all’Onu il riconoscimento della Palestina come Stato. Non credo che questo accordo cambierà gli equilibri: anche il popolo avverte l’esigenza di una normalizzazione, e se Hamas vuole perseguire la linea della guerra permanente non credo andrà lontano».
Shalit è stato scambiato con 1027 prigionieri: si sta passando il messaggio che un israeliano vale 1027 palestinesi?
«No, non la porrei in questo modo: dobbiamo inquadrare la questione nel contesto specifico di questo conflitto. Stiamo infatti parlando di una “guerra asimmetrica”, in cui c’è uno Stato che, almeno in alcuni territori, si configura come “occupante”, e dall’altro un’entità non statale. Quindi la domanda diventa: al di là di chi si è macchiato di gravi crimini, questi prigionieri vanno tutti considerati come terroristi, o anche, in diversi casi, come attivisti vittime di misure eccessivamente restrittive?».
Il presidente israeliano Peres ha annunciato che, nel firmare il via libera al rilascio dei detenuti, aggiungerà la frase «non perdono e non dimentico»: un accordo che, più che un passo avanti verso una risoluzione del conflitto, ne costituisce invece un ulteriore tassello?
«L’accordo non va visto come parte del processo di pace, ma semplicemente come una mossa tattica in cui ognuno ha calcolato di guadagnare qualcosa. L’unico vero elemento di novità è rappresentato, come già osservato, dal fatto che ci sia stata una trattativa tra Israele e Hamas, per quanto non ne derivi alcuna legittimazione di quest’ultimo come interlocutore: semplicemente, ripeto, è stata una scelta pragmatica, e in quanto tale si presta a interpretazioni contrastanti o semplicemente pluralistiche da parte degli osservatori e dell’opinione pubblica in generale».