Il senso della vita… sempre
La vita vince comunque. Anna, tre storie diverse, un’unica chiave di lettura
Tre pensieri, tre flash illuminano il cammino di Anna stasera. Mentre procede nel buio autunnale visita gli incontri di questi giorni e svela il filo rosso che li annoda in una sorta di percorso purificatore, in cui la vita comunque vince, anche stremata e sacrificata.
E intanto si chiede se e come possa trasmettere questo ai suoi figli, come può loro mostrare, più che dire, che la vita è sacra sopra ogni dubbio, anche quando la vecchiaia irrompe, portatrice di laceranti sussurri e di rinnovati sospiri.
Che ci faccio io qui?
Cleto supera gli ottanta, ma Anna continua a vederlo uguale, pur malato da molti anni. Si assopisce sulla sua poltrona nel cortile di casa e gode dei raggi tiepidi di primo autunno, ma quando qualcuno lo visita, allora distende le rughe in un sorriso mite, che ricorda però ancora quelli solidi dell’età matura. Anna questo pomeriggio lo vede così. Cleto potrebbe raccontare quasi un secolo di ricordi e quando può, lo fa volentieri, ma è discreto: sa quando fermarsi. Quando è circondato dai nipoti si abbevera con garbo alla gioventù e gusta intimamente quel futuro dirompente con letizia e una buona dose di curiosità.
Non è completamente autonomo ed è diventato cieco. I figli giungono ogni giorno dalla pianura dominata dai severi, ma bellissimi, colli dell’Oltrepò per organizzare e sostenere, ma è evidente che anche loro si nutrono trepidamente a quell’età e a quella fragilità umana, che è la grandezza del loro padre e della loro madre. Cleto è fortunato: l’angelo della sua sofferta vecchiaia è Luigina, la moglie che da tanti anni lo segue e lo cura e che dirige la grande casa. «Dimmi, cosa ci faccio io qui sulla terra? Dovrei essere inutile… Ma Luigina mi vuole così bene, mi adora, che non posso fare altro che starle vicino e sorriderle, dirle che è brava!».
Poi commenta alcune notizie del giornale che Anna gli legge. Luigina arriva, controlla, gli accarezza il viso e se ne torna in casa, vuole offrire qualcosa, ma Anna è senza parole perché ripensa a quel «mi vuole così bene…» e a quella carezza. L’essenziale.
So-stare con la sua malattia
In aereo dalla bella terra del Sud, in piena estate. Non per un sereno rientro in città dalle ferie, dove si sono rincontrati i parenti lasciati più di quarant’anni fa, ma per un’emergenza. All’aeroporto del Nord un’ambulanza trasporta Mario nel reparto, lasciato una manciata di giorni prima. Il limpido sciacquio e la bianca spiaggia in cui ritrovarsi bambino è solo purtroppo un fugace assaggio, ora già scolorito, della volontà di assorbire i suoni della terra natia, quasi a lenire le sofferenze.
I medici in reparto confermano: il rischio è alto, l’aggravamento è quasi inspiegabile, non fosse per la complicazione di un’infezione galeotta. I medici disperano. Mario si fa forza, anche perché la prima a non mollare è lei, Maria, la moglie. Quarant’anni insieme. Maria racconta ad Anna, sua compagna di studi universitari, di quanto la malattia del marito negli ultimi mesi le abbia restituito, a tutto tondo, l’istantanea più vera della loro coppia, l’essenzialità che li ha tenuti uniti, lontano dalla loro terra: l’amore, il lavoro, i figli, i successi e le pene.
Ora sempre più distintamente percepisce quale forza possa avere la dedizione, la cura, lo spendersi in attenzioni. Maria lascia la professione e si dedica tutta a questa battaglia: ora, dice, l’importante è ascoltare, seguire, prevenire, accendere speranza ed entusiasmo, creare tutte le condizioni per guardare alla vita, al respiro dell’alba, ogni giorno, il sole, il sorriso di un bambino, il cellulare sempre acceso con amici e parenti, il giornale fresco di stampa, il disegno del nipotino, le foto…
E Mario ritorna. Si riprende e stupiscono tutti. Combatte e vince lo stadio critico della malattia, ritrovando il gusto della vita. Anna riconosce i consueti lampi di entusiasmo negli occhi di questa donna combattiva e minuta, amabile e generosa con tutti. Un capolavoro di umanità.
Come tanti sguardi di uomini e donne incontrati in certe corsie di ospedale.
I cinquecento passi
Ospedale… Anna rivede la severa esperienza degli ultimi mesi in un ospedale, accanto al padre gravemente malato, che si è spento, lottando per la vita, con la grandezza di chi l’ha vissuta con grande dignità e nobiltà d’animo. L’ultima lezione, l’ultimo respiro… testimonianza di un’esistenza capace di parlare al cuore di figli e nipoti con una tenerezza e una determinazione giovanile.
Conta i passi Anna, quelli che la separano dal reparto duro in cui assiste il padre: 500, cinquecento pensieri per darsi le ragioni di quel che accade, cinquecento conferme del valore di quei momenti, di quelle fatiche. Quando arriva al reparto tutto è purificato, tutto è disponibile alla vita che ancora scorre, che vuole dare un senso anche se senso non l’ha e non può averlo in termini umani.
E lì, la constatazione è ferocemente messa in discussione. Nella stanza si muovono leggere le persone che assistono gli altri tre malati. Nulla turba se non gli sguardi talvolta inquieti, densi di partecipazione umana e di affettività, che si incrociano sulle flebo. Quante volte in quei mesi Anna ha pensato alle flebo come a candele oranti, che, rivolte al cielo, invocano la pietà di Dio! Parole di conforto, coraggio di figli e mogli, che combattono una malattia che porterà tutti i loro cari alla conclusione dell’ultimo passo. Che senso ha? Eppure quanto senso ha! È un mistero.
Danzano quasi attorno agli occhi talvolta velati e assenti del loro caro: mi senti? Fatti forza, sono qui io con te. Portiamo insieme questo peso. Guarda chi è venuto a trovarti, ti vogliono tutti bene. Fidati, c’è qualcuno che pensa a te, che ti protegge sempre, proprio sempre, anche quando non ci sono. Anna li osserva nelle cure e registra l’umiltà che fa tutti uguali, quando anche le infermiere e gli infermieri, con il loro carico di responsabilità, hanno per gli ammalati e i loro parenti parole d’incoraggiamento e di cura.
Non è sempre scontato, pensa Anna. E sente gratitudine per un semplice gesto, per un’attenzione in più E lo dice: perché tenere nascoste le opere belle che si vedono?
Uno dei malati non riceve nessuna visita. È sempre solo. Anna lo vede un giorno balbettare qualcosa e osserva bene: le labbra stanno recitando l’Ave Maria e poi il Padre Nostro. Pensa che è in buona compagnia. Andrà dopo a salutarlo, a chiedere di cosa ha bisogno oggi. A chi entra e attonito guarda alla sofferenza lacerante che trapela da ogni paziente, Anna lascia un segno di speranza e di fiducia nella vita, anzi una sera si sorprende a dire, fra le lacrime: «Qui si celebra la vita, il passaggio alla vera vita». E la stanza cinque della lungodegenza diventa, a ogni ultimo respiro, una cappella dove Cristo è più che mai presente. O ci si crede e tutto si svela, o tutto è vano.