Il senso del limite e del dono nella relazione di cura

Antonella Tissot

Sono nata il ventuno a primavera

ma non sapevo che nascere folle

aprire le zolle,

potesse scatenar tempesta.

Così Proserpina lieve

vede piovere sulle erbe

sui grossi frumenti gentili

e piange sempre la sera.

Forse è la sua preghiera.

Alda Merini

 

 

 

 

 

Premessa

 

 

Filosofi, teologi, psicologi, da tempo si interrogano sul tema del limite cercando di integrare le dimensioni che in esse si interfacciano, quella esistenziale, psicologica e spirituale.

Anch’io, come psicoterapeuta clinica e psicologa, all’interno di un servizio dell’ASL per le fragilità e la disabilità, mi sento interpellare quotidianamente sul senso del dolore e della fragilità dell’uomo.

Infatti, mi trovo spesso di fronte alla fatica della gestione clinica ed affettiva di persone non più autosufficienti. Fatica che ritrovo anche nei familiari delle persone assistite all’interno del nostro servizio, con i quali condivido il carico emotivo, in uno scambio di mutuo aiuto.

La frequentazione clinica di persone anziane, da qualche anno a questa parte, mi fa sentire sempre più la necessità di confrontarmi con le parti “vecchie” di me, non già quelle deboli e da accudire per loro intrinseca fragilità, ma quelle nascoste, tenute a bada da un ipertrofismo tecnico, ingessate da una rigidità professionale, quelle cioè attraverso le quali mi è possibile curare l’altro e anche me stessa.

Vorrei allora, in questo contributo, analizzare l’esperienza condivisa nella relazione di cura nel suo duplice aspetto: quello della fragilità e quello del dono reciproco.

 

 

 

La reciprocità come dono

 

 

Da un legno torto come quello di cui è fatto l’uomo,

non si può ricavare nulla di veramente dritto.

Kant

 

 

In un mondo altamente tecnologizzato, centrato sul consumo, nel quale il tempo sembra evidenziare il lato oscuro dell’essere più che una ricchezza, dove il cambiamento è vissuto come incertezza o un rischio per dirla con Ulrich Beck, la paura di essere lasciati indietro, di non essere all’altezza ci induce a vivere «nella fragilità del presente che richiede solide fondamenta là dove non ne esiste alcuna» (Alberto Melucci).

La globalizzazione confonde, nel senso che fonde insieme, le varie identità in una sovrabbondanza ridondante di bisogni; la desacralizzazione della natura porta al saccheggio delle risorse ambientali e ci illude che tutti i bisogni possano essere soddisfatti all’infinito, senza limiti appunto.

In questo modo le sicurezze vengono meno.

Per fortuna, l’interazione terapeutica ci fa esperire una condivisione attraverso il cum-munus e permette al terapeuta così come al paziente di confrontarsi nelle fragilità e di comunicare attraverso la propria umanità.

È proprio il riconoscersi limitati e feriti in senso junghiano che permette di diventare operatori di salute e veramente prossimi all’altro.

Può darsi che Kant avesse ragione nella sua intuizione pessimistica sulla realtà umana e che l’uomo non sia effettivamente in grado di costruire nulla di dritto. Tuttavia, proprio attraverso la costruzione di forme a volte gobbe e nodose, l’umanità sa rinunciare alla perfezione e andare alla ricerca di un bene altro che è l’integrità.

La psicoterapia può diventare una cura dell’anima?

La domanda ontologica sulla fragilità ci conduce ad una maggiore consapevolezza di quel che siamo e ci apre la strada ad una maggiore apertura verso l’ altro e verso noi stessi, che possiamo identificare come dono.

È risaputo che ciò che da soli non si riesce a fare, può diventare pensabile grazie alla presenza dell’altro: l’impossibile può diventare probabile.

La condivisione del dolore ci trae fuori da uno sterile isolamento auto-referenziale, ci stana dal rifugio della sofferenza di chiaro stampo vittimistico e ci ricorda il bisogno della reciprocità per alleggerire il peso della sofferenza.

La psicoterapia che passa attraverso una spiritualità della crisi aiuta ad accogliere le frustrazioni nella riscoperta del limite che le caratterizza, creando un paradigma relazionale morbido, che smussa gli spigoli del narcisismo, del dominio del sapere, delle pretese di auto-affermazione referenziali, ed è in grado di trasformare le ferite in feritoie.

 

 

 

Il modello dell’unità nella relazione terapeutica

 

 

Nei nostri servizi di assistenza domiciliare assistiamo impietriti, talvolta, alla rabbia espressa da un figlio nei confronti dell’anziano genitore da accudire, all’impotenza di un coniuge che poco può dare alla moglie non più autosufficiente, a posizioni francamente depressive, di chiusura in se stessi, fino anche di desiderio di morire perché non ce la si fa più, soprattutto se in presenza di decadimenti cognitivi irreversibili. Situazioni le più svariate, queste, che hanno in comune con il lavoro di cura alcune caratteristiche rilevanti: la dipendenza, la fragilità, la perdita di autostima; attacchi più o meno velati al proprio narcisismo.

Non possiamo fare a meno di notare l’intrecciarsi di elementi, a volte confusivi e patologici che abitano queste relazioni e che sono in grado di scatenare meccanismi di identificazione, proiezione, sensi di colpa e veri risentimenti.

Può sembrare strano, ma non sempre l’accudire gli altri ci fa star bene.

Al contrario, questa condizione che, il più delle volte, determina un’inversione dei ruoli di forza, sfocia in aggressività mal controllata e, solo nel migliore dei casi, produce solidarietà e reciprocità.

La relazione genitori-figli, per esempio, si snoda proprio attraverso questa reciprocità.

Il vincolo generazionale assume una valenza etica per entrambi, a partire dal carattere di dono che è al contempo un piacere e un debito.

Solo il familiare che abbandona le proprie istanze narcisistiche-onnipotenti, che non vacilla di fronte alle precarietà dell’apparenza, che non si sente in colpa per tutto ciò che avrebbe potuto fare e non ha fatto, che tiene sotto controllo il suo agire ipertrofico rivolto più a rinforzare l’immagine di sé che non a soddisfare i bisogni dell’altro, riesce a non sentirsi inadeguato come una «zattera senza timone in un mare di pena» (Allende).

Come dei naufraghi in un mare in tempesta i familiari dei nostri pazienti adottano, durante il cammino che attraversa la cura, varie strategie nelle quali non possiamo che ritrovarci.

Ci sembra, da questo punto di vista, che la metafora del viaggio possa rappresentare molto bene il percorso doloroso dei pazienti che spesso si trovano confinati in un mare aperto, alla ricerca di isole dove attraccare.

Qualche volta da soli, alcune volte con il nostro aiuto.

Non si tratta qui di rimuovere la sofferenza dalla nostra vita e da quella delle persone che amiamo, come vorrebbe una certa onnipotenza narcisistica e come potrebbe essere espresso nella mitonimia Allegria dei naufragi di Ungaretti.

Si tratta, piuttosto, di accompagnare i nostri anziani e le loro famiglie a recuperare la dimensione di una solitudine dolorosa che deriva dall’essersi confrontati con il proprio limite.

Il nostro, innanzitutto, e il loro in un secondo momento.

 

 

 

Antonella Tissot*

Dirigente Psicologa-Psicoterapeuta

 Resp.SS Fragilità e Cure Domiciliari

 Prof. a contratto Univ. Mi. Statale

 

 

 

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