Il Sanremo che ci aspetta
Com’era prevedibile, la gestione Fazio garantirà un minimo d’attenzione in più alla qualità e all’originalità (grazie soprattutto a un direttore artistico come Mauro Pagani), ma anche un deciso indietreggiare verso la nostalgia. Inutile aggiungere che alla Littizzetto sarà affidato il pepe, contorno obbligatorio per un Festival che senza polemiche rischierebbe d’annegare nell’ovvio: stavolta ne basterà meno del solito, vista la straordinaria eco che l’imminenza elettorale regalerà a qualunque boutade. Assai meno roboante del solito il menù dei superospiti – la crisi non guarda in faccia nessuno…–, il che avrà, se non altro, il merito di mantenere il baricentro mediatico sull’evento musicale (per quanto annegato dalle solite razioni di chiacchiere e spot).
Ma veniamo allo specifico canzonettaro. Il cast dei cosiddetti big di questa 63esima edizione (quattordici, con ben due brani a testa) appare miscelato col solito bilancino: un po’ di questo e un po’ di quello; una spruzzata di modernità para-rockettara o post-folkettara, e una strizzatina d’occhio ai maestri della canzone d’autore; una bella dose di melodismo nazional-popolare, e qualche sberleffo iconoclasta.
Come ogni anno non mancano i favoriti della vigilia. Tra i più in vista, Raphael Gualazzi, swingarolo uscito anni fa dal sempre gravido cilindro della signora Caselli, il cui sapiente mix di talento compositivo e personalità interpretativa potrebbe regalargli il definitivo passaporto per l’Olimpo dei Grandi. Ma suggestioni interessanti s’attendono anche da cantautori modernisti come Cristicchi e Silvestri, da rock band blasonate come i redivivi Almamegretta e Marta sui tubi, e dall’accoppiata Molinari & Cincotti che proporrà un delizioso inedito del maestro Luttazzi. Più vicini all’ortodossia festivaliera Malika Ayane e il consueto manipolo di reduci dai talent-show.
E i giovani? La nuova regola che consente di conoscere prima i brani, toglie un’ po’ di suspense, ma aiuta a prender confidenza con voci ancor poco note al grande pubblico. Qualcosa di interessante il festivalone lo mette in mostra anche in quest’ambito, per quanto i modelli di riferimento appaiano anche quest’anno ben più tangibili dell’originalità delle proposte. Nulla di trascendentale, ma prodotti mediamente più che dignitosi, e che, a differenza di baracconi come X Factor (cui pure il Festival da tempo strizza l’occhio), mostrano talenti più irrobustiti da una sana gavetta, che baciati dalla fortuna. Alcune canzoni, come Le parole non servono più de Il Cile o In equilibrio di Ilaria Porceddu non sono male; la differenza la farà la capacità di domare il palcoscenico più complicato e infingardo d’Italia.
Resta da dire dei testi. In questo il Festival ha sempre rispettato – e rispecchiato – quel che gli succede intorno. Ovvio dunque che da sotto le rime affiorino, in forma diretta o metaforica, le brume di un presente ben poco appetibile. La novità semmai sta in una strana propensione di alcuni – da Elio a Max Gazzè – verso richiami spiritualisti solitamente rari da queste parti; il come tutto ciò si realizza raramente convince, ma anche questo fa parte del gioco. Per il resto, dosi copiose d’inquietudini e precarietà esistenziali, alternate alle consuete melasse amorose e a qualche graffio para-sociologico. Alla spensieratezza, mai come di questi tempi necessaria in un ecosistema dalle tradizionali ambizioni antidepressive, penseranno Fazio e la sua squadra.
Buona visione a tutti gli irriducibili.