Il sangue semina la pace
Cosa succederà in Birmania? , mi avevano chiesto due amici europei all’inizio delle dimostrazioni. Ne uccideranno il maggior numero: l’hanno già fatto nel 1988, avevo risposto. Non so se mi avevano creduto… Fatto sta che quella la notte non ho potuto dormire. Li ammazzeranno tutti, mi ripetevo, e continuavo a girarmi sul letto. Sentivo quasi le grida di quei monaci, anche perché pochi mesi prima ero stato in un monastero per incontrarli. Con i monaci ci eravamo capiti anche con il solo sguardo e con poche parole. Qualche giorno prima ero arrivato sulla spianata della pagoda Swedagon, la più bella di Yangon, maestosa. Un monaco sulla sessantina aveva preso a guardarmi. Anch’io lo guardavo. Sorrisi, poi lui mi porse, inaspettatamente, un’arancia. E pensare che in genere i monaci ricevono, non danno. Ci siamo divisi il frutto e l’abbiamo consumato insieme. Li incontri ovunque Appena metti piede in Birmania, o in Myanmar come l’hanno forzatamente ribattezzata i militari, li incontri ovunque, i monaci, ad ogni ora della giornata. Sono ragazzi, adulti e bambini che camminano spediti, con un portamento regale, silenzioso. Ti guardano nel profondo, poi vanno via, debbono trovare del cibo. Mi colpiscono ogni volta che li vedo, e rimango a guardarli a bocca aperta. Vivono secondo una regola scandita da 227 diversi voti, per il tempo che desiderano o per tutta la vita. Dipende dalla quantità di grazia che hanno nel cuore. Com’è possibile? Cosa li spinge, cosa li costringe ad andare avanti? Perché la loro è una vita dura. Li si ammira e talvolta li si capisce. È una luce quella che trasmettono. Dunque, quasi le sentivo le loro grida, quella notte. La violenza è pane quotidiano in Birmania. I camion, lo sapevamo, erano arrivati carichi di soldati. Ci saranno azioni contro i dimostranti: non uscite, si diceva. Ma i militari sono entrati di notte addirittura nei monasteri, hanno preso i monaci nel sonno e li hanno portati via su quegli stessi camion. Il pavimento di più monasteri si sono ritrovati cosparsi di sangue. Non torneranno mai più, i monaci prelevati, e nessuno troverà i loro corpi. È già successo: i forni crematori sono spietati, fanno sparire tutto quello che non deve essere più visto. E la gente lo sa, ha paura e non uscirà più. Uccidere un monaco è la più grande disgrazia per un buddhista, è dannazione assicurata! Con tutta probabilità i soldati sono stati drogati per riuscire a fare una cosa del genere, mentre si è al corrente del rifiuto di alcuni di essi che non ce l’hanno fatta a compiere tali gesti. Come si può uccidere un uomo disarmato che ti sta davanti con le mani giunte? Classe privilegiata? Eppure i monaci buddhisti sono la classe privilegiata del Myanmar: mangiano sempre a sazietà, sono rispettati e anche i potenti della loro terra ricorrono a loro per ricevere perdono, grazia e sicurezza di una vita migliore nell’aldilà. Se sei un normale cittadino, invece, in Birmania non sempre mangi, e di questi tempi sempre meno di frequente. Tanto più che una famiglia, anche se ha poco, lo divide con i monaci: è il pegno da pagare per una vita migliore, per riscattarsi qualora capiti di sbagliare. E loro, i monaci, accettando quanto gli si dà, trasferiscono ai benefattori un po’ di pace e di quella grazia che si ritroverà poi accumulata alla fine della vita. È un rapporto di rispetto che lega tutta la società birmana ai monaci, in modo indelebile e senza eguali al mondo. L’una senza gli altri non possono vivere: non accettare l’offerta vorrebbe dire condannare il donatore, scomunicarlo… Non a caso i monaci nelle manifestazioni avevano rovesciato le loro ciotole, segno eloquente che non avrebbero più accettato cibo dai militari. La scomunica, insomma. Ma erano stati proprio loro, i monaci, i privilegiati, ad organiz- zare la protesta, segretamente, congiuntamente e velocemente, prima che le spie se ne accorgessero. L’hanno fatto per i loro parenti, per gli amici e i familiari, coloro che soffrivano e soffrono ogni giorno per una vita diventata impossibile. Tutto è carissimo, la gente ha fame, i bimbi sono malnutriti o addirittura denutriti. Starsene tranquilli in monastero non era più possibile per loro. Pensavano forse ingenuamente che con la compassione amorevole buddhista, che obbliga a genuflettersi anche di fronte a un fucile, persino i cuori dei più spietati militari avrebbero ceduto. Calcoli sbagliati. Il fiume rosso La gente è rimasta di sasso guardandoli sfilare: un fiume rosso che ha riempito le strade che faceva accapponare la pelle e trasmetteva scariche elettriche che attraversavano le vene. Stavolta li ascolteranno, ci si diceva, si sperava, almeno. Cosa state a guardare la televisione? Venite con noi a chiedere la libertà, urlavano alla gente. Le televisioni si sono allora spente e i fiumi di protesta si sono ingrossati, tanto che il potere è stato colto di sorpresa. Mai avrebbe immaginato qualcosa del genere. Aveva cercato, sin dall’indipendenza, di comprare la simpatia dei monaci e la felicità nella vita futura, con offerte cospicue di denaro. E loro, i monaci, le prendevano e in massima parte le distribuivano ai poveri. Eppure tradire chi compra il tuo silenzio è cosa grave nel buddhismo, e non solo. E avrebbero dovuto perciò pagare, coscienti di quello che avrebbe potuto accadere, anche dello spargimento di sangue. Il colore dell’amore, il colore dei loro vestiti, dicevano. Ora la gente crede fermamente che quel sangue innocente versato stia cambiando la Birmania, e che non si potrà più tornare indietro. Anche perché il mondo è rimasto troppo impressionato da quanto hanno fatto e da quanto hanno subìto, anche se non si sapranno mai le cifre esatte della carneficina. Ed ora? Resta a noi parlare, discutere e far discutere su quanto accaduto anche e soprattutto fuori dalla Birmania, per evitare che si abbassi la guardia. Perché i potenti della giunta militare vorrebbero che dimenticassimo in fretta, avvolti dalle nostre poltrone, dimenticando anche che i birmani non hanno nemmeno i soldi per prendere un autobus o per concedersi una scodella di riso. E dimenticare che i bimbi piangono dalla fame in Myanmar e che la scabbia li fa urlare, mentre le medicine costano più dell’oro. La gente birmana è ancora e sempre più convinta che la strada tracciata dai monaci col loro martirio sia quella giusta: la non violenza, la compassione, la gentilezza. L’AUTOBUS DI YANGON Ho visto a bordo di un autobus scassato un monaco che accompagnava una signora con un bimbo ammalato in braccio. Li aveva portati a Yangon per consultare un medico. Problemi alla spina dorsale del bimbo. Aveva dato tutto per farlo curare: e gli occhi di quel monaco erano bellissimi, come quelli della donna. Gli autobus di Yangon: te li raccomando! Talvolta mi trovo a pregare che riparta, altrimenti sverrei, manca l’aria. Un giorno ho voluto provare cosa significhi trasporto pubblico da queste parti, per capire quanto la gente patisca, ogni giorno. Da allora li prendo sempre, gli autobus, ogni volta che mi reco a Yangon: novanta persone su una vettura che ne potrebbe portare al massimo trenta. Tutti si soffre, ma tutti si deve prenderlo. Non c’è altro da fare. E pensare che è proprio a causa dell’eccessivo costo delle corse di questi autobus sgangherati che è iniziata la protesta di settembre. Un biglietto costava ormai più di una ciotola di riso.