Il salto che divinizza

Riflessioni davanti al “Satiro danzante” di Mazara, capolavoro bronzeo di arte greca. L’opera ci trasmette la rappresentazione simbolica del bisogno che l’uomo ha di superare i limiti dell’esistenza ordinaria
mazara

Mazara del Vallo, questo comune del Trapanese che s’affaccia sul Mediterraneo di fronte alle coste tunisine, accoglie dal 2005, dopo il restauro effettuato a Roma, l’ormai celebre Satiro danzante. Questo capolavoro bronzeo, attribuito da molti studiosi ad epoca tardo-ellenistica o neoattica (II-I sec. a C.), venne recuperato in mare frammentario nel 1997 e 1998, probabile parte del carico di una nave naufragata tra la Sicilia e il Capo Bon. Per ospitare il prezioso reperto, l’ex chiesa cinquecentesca di Sant’Egidio è stata trasformata nel Museo del Satiro, che espone numerose altre testimonianze degli intensi traffici avvenuti fin dall’antichità nel canale di Sicilia, rinvenute in quei fondali.

Pur essendo la statua priva delle braccia e della gamba destra, si rimane affascinati dall’impetuoso slancio del giovane corpo inarcato, dalla testa flessa di lato, dalla fluente chioma stirata dal vento, dai segni d’ebbrezza evidenti nell’espressione stravolta. Tuttavia, per non limitarci alla sola emozione estetica, cerchiamo di approfondire il significato di quest’opera, il messaggio che proviene da essa: operazione non facile perché si tratta di entrare nelle categorie e nei miti di una cultura pagana, distante dalla nostra più di due millenni.

Rappresenta, come abbiamo detto, un satiro, una cioè delle mitiche creature dei boschi dai tratti in parte umani, in parte animaleschi (erano dotati di orecchie equine a punta, di coda, talvolta di zoccoli), che assieme alle Menadi, o Baccanti, facevano parte dei fedeli seguaci di Dioniso, il dio della trasformazione del mosto in vino, il dio delle metamorfosi, della transizione da uno stato all’altro.

I suoi devoti partecipavano ad un simposio iniziatico innaffiato da copiose libagioni di vino, al termine del quale, ormai ebbri, si scatenavano in danze e giochi di destrezza utilizzando  gli stessi recipienti del banchetto, al suono ossessivo di flauti e cembali: il tutto contribuiva ad uno stato di esaltazione, di estraniamento dal proprio io (l’entousiasmòs), indice della trasformazione  dei singoli in satiri, il cui incedere caratteristico era il procedere a salti; tale ricaduta nel “selvatico” consentiva il recupero, sia pure temporaneo, dell’originario legame sacro con la divinità. Esprimeva, in definitiva, il desiderio di immedesimazione con essa.

Il Satiro di Mazara è colto proprio nel momento in cui, in preda all’ebbrezza dionisiaca, ha spiccato un balzo e sta toccando terra sul piede destro, mentre piega all’indietro la gamba sinistra e allarga le braccia. Da cosa lo deduciamo? Dalle innumerevoli rappresentazioni complete di questo medesimo soggetto fornite da rilievi, vasi dipinti, argenti, vetri, gemme incise… Esse ci aiutano a immaginare le parti mancanti: il braccio destro la cui mano impugna il tirso, bastone rituale ornato di nastri con in cima una pigna; il braccio sinistro, da cui penzola una pelle di pantera, mentre la mano stringe l’ansa di una coppa inclinata nell’atto di spargerne il contenuto. Possono essere presenti o meno, ai piedi del satiro, un vaso rovesciato o una pantera nelle cui fauci viene versato quel vino capace di domarne la ferocia. Tirso, vino e pantera sono altrettanti simboli di Dioniso.

È stato chiamato “Satiro danzante”, ma meglio ancora andrebbe detto “saltante”, perché qui sta facendo appunto quel “salto nel dio” che lo fa oscillare tra squilibrio ed equilibrio, passare da uno stato di coscienza normale ad uno di coscienza alterata (come nella trance da possessione), da una dimensione solamente umana ad una divina. L’opera ci trasmette dunque, al di là del godimento estetico che essa ci procura, una efficace rappresentazione simbolica del bisogno che l’uomo ha, in epoche e culture diverse, di superare i limiti dell’esistenza ordinaria, di perdersi per ritrovarsi in uno stato “altro” e così raggiungere l’agognata unione con Dio, causa ultima di pienezza e di gioia.

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