Il sacro in Mozart
Una serata di quelle che non si dimenticano facilmente. Dapprima Honeck dirige in modo vaporoso, soffice la Prima Sinfonia di Beethoven, a preparare l’atmosfera. Tempi precisi, l’ultimo brioso e giocoso. Insomma, un post-Mozart che non è ancora il Beethoven della Terza Sinfonia, ma un Ludwig che sembra uscire dall’aria mozartiana, imprimendovi quella gioia un po’ rumorosa e quel finale infinito, vorticoso, tutto suo.
Poi inizia la liturgia, è il caso di definirla in questo modo, del sacro mozartiano. Si alternano sequenze in gregoriano puro (Requiem aeternam, Domine exaudi orationem meam) alla Lettera di Mozart al padre (4 aprile 1787), letta con pathos virtuosistico dall’attore Massimo Popolizio in cui il musicista parla della morte come “ottima amica dell’uomo”, non in modo drammatico, ma sereno. Segue la dolente Marcia funebre massonica e poi l’idea della morte si apre alla luminosità nel canto stupendo del Laudate Dominum in cui il soprano Federica Lombardi, voce di purezza lucente, ci fa discendere una pace priva di qualsiasi turbamento.
Ancora Popolizio che legge due sonetti del vecchio Michelangelo, colmo di rimorsi per le proprie colpe e abbandonato totalmente alla misericordia divina: Popolizio legge con fervore, quasi angosciante. Ad esso succede l’incompiuto Requiem in re minore, per fortuna eseguito così come l’ha lasciato il musicista morente, senza i completamenti degli allievi.
Il quartetto di solisti è esemplare: la luce di Federica Lombardi, il calore vivo di Marianna Pizzolato, la levigatezza di Mauro Peter e le profondità del polacco Krzysztof Baczyk sciolgono la tensione del brano in una meditazione dolorosa certo ma mai affannata. Il Dies irae- di cui Verdi certamente si ricorderà – è tremendo e sospiroso ma mai pessimista romantico, è dolore-amore-timore eseguito da cantanti, orchestra e coro con una levità commovente.
Mozart non è mai pesante anche quando parla di morte. L’orchestra ceciliana è un miracolo di delicatezza sotto la direzione precisa, appassionata ma equilibrata di Honeck. Credo sia il miglior Requiem che ho ascoltato da parecchi anni, privo dell’estetismo di un Karajan, del fuoco di un Muti, ma con quell’armonia dolce-e-triste, come è di Mozart.
Ancora un intervento di Popolizio nelle lettura di due brani dall’Apocalisse di Giovanni, che dovrebbero suonare terrificanti ed invece non lo sono, ben oltre la dizione drammatica dell’attore. Infatti, Mozart non è Verdi nè Britten né Berlioz né Brahms, grandi autori di Requiem. Nel caso, è più vicino a Pergolesi e a Cherubini. Così, si chiude con il brevissimo mottetto Ave verum, un incanto, forse l’ultimo brano completo da parte di Amadeus, un inno eucaristico di purezza assoluta: basterebbero anche solo una decina di persone ad eseguirlo e il tocco spirituale non ne verrebbe diminuito.
Esecuzione perfetta anche con la partecipazione della Schola Gregoriana del Pontificio Istituto di Musica Sacra, diretto da Franz Karl Prassi.
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