Il sabato della terra
Cantava Leopardi nella sconsolata conclusione dell’indimenticabile “Il sabato del villaggio”: “Garzoncello scherzoso, /cotesta età fiorita/ è come un giorno d’allegrezza pieno, /giorno chiaro e sereno, /che precorre alla festa di tua vita./Godi, fanciullo mio; stato soave,/stagion lieta è cotesta./Altro dirti non vo’; ma la tua festa/ch’anco tardi a venir non ti sia grave”.
Scusatemi la lunghezza della citazione: leggetela più di una volta.
Cominciamo oggi l’Avvento, il sabato del villaggio, il sabato della terra. L’attesa. Attendere è uno degli atteggiamenti più profondi dell’essere umano: attendere l’amata all’appuntamento, attendere la nascita del figlio, attendere lo sposo dal lavoro…Quando l’atteso/a giunge, sul volto si dipinge un sorriso. Anche quando arriva l’autobus, l’avete notato?
Perché? Mancava qualcuno, qualcosa. Che si sperava. E quando non arriva, allora è la delusione, la tristezza. Il vuoto non riempito.
L’umanità ha atteso per migliaia di secoli con lo sguardo del cuore proteso in avanti. Sperando. Continua ad attendere. Molti surrogati alla speranza le sono stati e le sono presentati: idoli. Che non riempiono il vuoto dell’attesa. Da un’illusione all’altra l’umanità spera.
L’Avvento è questa attesa, ma in una presenza. Fra un già e un non ancora. Lo si intravede, ma sta ancora nascosto. Svelamento e mistero.
Maria “custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). Vedeva e cercava. Intuiva che sotto quello che vedeva c’era qualcosa di più grande.
“Altro dirti non vo’”, suggerisce Leopardi. L’Avvento vuole aprirci al “sospetto” di quest’Altro, a questa presenza velata, che non delude la festa. Ma che “gioca a nascondino”. Dove starà?