Il rosso e il blu della scuola
Il cinema di Giuseppe Piccioni – questa volta Il rosso e il blu, esce in 150 copie – è morbido e rispettoso, venato di nostalgia. Chiedergli indagini socio-politiche sarebbe prendere la via contraria per comprenderlo e apprezzarlo: è cinema di rapporti. E il mondo della scuola è fatto di rapporti. Da insegnante quale il regista è stato, affronta la vita di un liceo romano, con la varietà multiforme dei tipi e degli insegnanti.
La preside rigida e senza figli (Margherita Buy), il vecchio professore di storia dell’arte deluso e cinico (Roberto Herlitska), i l giovane precario d’italiano pieno di idee (Riccardo Scamarcio). Ci sono tutti i tipi di ragazzi: dal rumeno studioso e timidamente innamorato della sfacciata ragazzina romana, alla studentessa aspirante stellina, dal ragazzo senza famiglia al gruppo studentesco disinibito ma giocoso in fondo: tutti formano la materia prima di una scuola dove i problemi non mancano, dalla disciplina alla carta igienica.
Piccioni non giudica, ed è questa una delle bellezze del film. Gioisce e sospira come i personaggi, lieve nel tocco. E se il cuore o meglio l’anima di tutti man mano si spalanca – anche il cinico Herlitska, grande attore, finirà prima di morire con la sua più bella lezione d’arte (ma dove l’ha presa Piccioni?), la Buy aprirà il cuore al ragazzo disadattato e Scamarcio otterrà risultati dai ragazzi – beh allora c’è qualcosa in cui sperare.
Non è infatti solo la scuola che Piccioni ritrae, è l’Italia. Non dimentica le sguaiataggini di certi genitori, certe arroganze e furbizie, certi drammi familiari. La conclusione moderatamente serena – controcorrente di questi tempi – dice che si può sperare. Il film, specie nella seconda parte, forse affastellata di situazioni, non è perfetto, ma perfetta è tuttavia l’atmosfera e commovente a tratti perché è vera. Chi conosce la scuola dal di dentro sa che questo regista l’ha colta molto più di altri. Ma Piccioni ha colto anche con una speranzosa malinconia: la voglia di una Italia che pur timorosa vorrebbe emergere e ricominciare. Basta sciogliersi nei rapporti interpersonali. Ma allora è soprattutto questione di amore?
È proprio un altro mondo quello di Magic Mike, film di Steven Soderbergh. Ovvero come da spogliarellista al maschile si può riuscire a sopravvivere in America. Di giorno si può anche fare il muratore, ma di notte ci si scatena in un club per sole donne. Il gruppo di giovani che fa questo mestiere – dal disilluso al giovane rampollo, al guru Matthew McConaughey – , si diverte, incassa soldi, ama in qualche misura, non si pone problemi più di tanto. Ma è proprio così? O meglio, il film è come il manifesto pubblicitario erotico e le scene sensuali captate da una fotografia “carnale” e sabbiosa? Certo, Soderbergh spiazza ormai in ogni genere e qui sembrerebbe strizzare l’occhio al commercio a basso costo. Ed è vero. Ma forse questa esibizione di corpi perfetti trasuda la tristezza per una generazione costretta ad abbassarsi pur di vivere. Della serie, negli Usa non sono tutte rose e fiori, non bisogna badare troppo alle apparenze. Anche in un film di Soderbergh, fatto di lustrini eccessivi e di furbi ammiccamenti.
The Wors, di Brian Klugman e Lee Sternthal. Le parole creano vite e ne distruggono altre. Nel gioco ad incastri del racconto di uno scrittore osannato che narra di un suo pari che però deve il successo ad un libro copiato dai ricordi di un anziano (un grande Jeremy Irons) – ma poi è tutto vero, sarà proprio così? -, non si sa quanto di vero, di inventato o di accennato ci sia: cioè, dov'è la verità, fino a che punto arriva e dove inizia la finzione sia nel racconto e sia soprattutto nella vita di chi ha raggiunto la fama? Metafora della insincerità dei rapporti, del conflitto tra onestà e furbizia, il film si sviluppa (talvolta si imbroglia) in storie parallele senza una conclusione soddisfacente, che non sia quella del dubbio. Ben girato in sequenze ordinate, ben recitato e per nulla pesante, è film di riflessione ,commedia-dramma psicologico che osserva più che dar risposte.