Il ritorno di Lucrezia Borgia
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Certo, la Lucrezia che il librettista Felice Romani trae dal dramma di Victor Hugo per il debutto scaligero del 1833 con la musica di Gaetano Donizetti, appartiene ancora alla “leggenda nera borgiana” che vede la donna una crudele assassina. Tuttavia qui è anche una madre disperata ed affettuosa, sospettata ingiustamente dal marito duca Alfonso di adulterio con un giovane capitano, Gennaro, che è invece il figlio creduto perduto. Vittima pure lui del veleno borgiano.
Calunniata, offesa, vendicativa e tenera: questa è la Lucrezia del Prologo e due atti alla quale vengono regalati concertati e duetti furenti, ed arie dolcissime e dolenti. Un’opera notturna, tenebrosa che Donizetti riveste con una orchestrazione duttile, colorata sul grigio o sul nero, con largo uso di ottoni, di percussioni, dell’amato clarinetto e dei corni. Un capolavoro di vaste scene d’insieme.
L’edizione romana contava su due speciali punti di forza, oltre al cast: direzione e regia. Roberto Abbado ha diretto con minuziosa precisione, cura delle atmosfere e quindi dei dettagli strumentali anche minimi ma rivelatori, con attacchi precisi e fulminanti (Concertato Finale I), atmosfere romantiche di enorme pathos (Finale II), o tragicamente brillanti (banchetto e brindisi atto II) e momenti elegiaci con l’arpa in primo piano.
La “passione” così tipica di Donizetti, il suo colore capace di passare dal tragico al comico al brillante al lirico, sono emersi grazie ad una direzione davvero attenta di una musica amata evidentemente da Abbado.
La regia dell’argentina Valentina Carrasco ha puntato sulla maschera come volto-simbolo del dramma transepocale nei costumi, tra tendaggi filamentosi o neri o rosso sangue a delineare un racconto fosco di vendetta, con qualche esagerazione di stampo verista (risate sadiche del Duca e di Lucrezia nel primo cast) non propriamente donizettiana, lasciando spazio tuttavia al canto e a movimenti scenici efficaci, con la bella invenzione del bambino che simboleggia Gennaro da piccolo rapito alla madre e poi venuto a raccoglierla.
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Quanto ai cast, si notano alcune differenze tra gli interpreti, guidati sempre dal direttore. Se l’Alfonso di Alex Esposito è ruvido e sadico(forse troppo), Carlo Lepore appare più nobilmente oscuro; fresco è Enea Scala come un Gennaro dotato di squillo, di tecnica e di passione, che darà in futuro altre sorprese; il Maffio Orsini è un mezzosoprano che punta al grave in Daniela Mack e allo svettante in Teresa Iervolino. Bravi gli altri e il coro ben intonato.
La protagonista? Certo, Lidia Fridman è brava attrice, sciolta, voce notevole, capace di virtuosismi anche se con un timbro non sempre perfetto, mentre Angela Meade grande belcantista offre una interpretazione musicalissima, di notevole bellezza.
Spettacolo molto positivo, da ripetere.