Il ritorno di Luca Signorelli
È dal 1953 che il pittore “pelegrino”, come lo si definiva (cioè ricercato, originale, geniale), non si metteva in mostra. O meglio, non lo mettevamo in mostra, attorniato dai conterranei Perugino, Pintoricchio, Piero della Francesca, Pollaiolo e Ghirlandaio, per dire di un numero di colleghi che si contendevano e si contendono la palma della vittoria in un immaginario concorso per il “miglior artista”. Hanno anche lavorato insieme, nella Cappella Sistina, Signorelli con Ghirlandaio e Perugino, fianco a fianco. Lo stile di Luca, asciutto, plastico, dinamico lo si intravede subito accanto alle partiture armoniche di Ghirlandaio e alle dolcezze elastiche di Perugino.
Luca ama il corpo umano, è indubbio: gliel’hanno insegnato i Pollaiolo e lui lo insegnerà anche a Michelangelo (anche se quest’ultimo dirà di non aver mai avuto alcun maestro, ma è uno dei suoi spropositi). Luca dunque, cortonese che viaggia tra Umbria Firenze e Roma, esordisce con ricordi pierfrancescani (Madonna col bambino, di Oxford, 1475 circa), ma trova presto la sua strada. Che è quella della monumentalità, ampia e forte. Per Signorelli, l’arte va pensata in grande. La Pala nel duomo di Perugia vede una Madonna-matrona classica accanto ad un gruppo di santi, ognuno chiuso nella sua fortezza plastica e nel colore bronzeo: sculture dipinte. Nulla di grazioso, anzi, tutto è ferrigno, con una luce chiarissima, pierfrancescana: razionale, come gli spazi.
L’angelo che accorda il liuto è un ragazzo asprigno, nervoso. Il mirabile vaso di fiori di campo, stilizzati come un Cézanne, è una figura geometrica battuta dalla luce del sole. Si sente il silenzio ma ha qualcosa di drammatico. Nelle diverse Madonne o Sacre Famiglie questo dramma cerca di placarsi, ma lo si avverte. La celebre Madonna Medici degli Uffizi (1485-90) è una scultura metallica dipinta: la madre gioca col figlio sul prato, circondata da giovani atleti bronzei in una commistione tra classicità e cristianità tipica dell’epoca e di Luca in particolare.
Un’arte virile, libera. Quando a fine secolo Luca riprende gli affreschi incompiuti dell’Angelico ad Orvieto nella cappella di san Brizio, la sua poetica è giunta alla piena maturità. Le scene tremende dell’Apocalisse, della fine del mondo sono un fuoco di corpi che lottano tra vita e morte, di battaglie fra cielo e terra, di toni sulfurei e di colori acidi. Un finimondo plastico su cui torreggia la vittoria del Cielo. È il Signorelli visionario, un Tintoretto umbro-toscano che fa del corpo uno strumento della passione umana. Michelangelo da lui imparerà moltissimo e lo citerà spesso. Perchè per lui, come per Luca, i corpi sono voci dell’anima. A differenza di oggi, dove sovente sono solo esibizioni di carne.
Qualche volta anche Signorelli comunque si riposa, a modo suo. Negli angeli della Sagrestia di Loreto o nelle Storie di san Benedetto all’abbazia di Monteoliveto maggiore, dove appaiono squarci naturali ampi e, ovviamente, robusti. Invecchiando, Luca si ritira dai grandi centri e lascia fare molto alla bottega, come anche fa il Perugino. Si sente fuori moda nell’epoca di Raffaello e Michelangelo? Possibile.
Ma il graffio della sua arte leonina ritorna in certi luoghi fuori dal giro come gli affreschi a Camprena, dove lascia una Crocifissione che è un saggio di regia cinematografica acutissimo. L’ho scoperta anni fa per caso. Un capolavoro ignoto ai più.
Val la pena percorrere l’Umbria tra Perugia, Orvieto e Città di Castello – ma anche Monteoliveto e Camprena, oltre che Firenze e Roma – per incontrare Luca, un grande del rinascimento. Un’arte bella ed energica, finalmente sicura di sé e asciutta. Quello che oggi ci vorrebbe.
Luca Signorelli. Fino al 26/8 (cat. Silvana editoriale)