Il ritorno di Kurt Masur
Il grande direttore tedesco porta all'Accademia di Santa Cecilia la sensibilità del romanticismo germanico, tra sonorità possenti e tinte robuste.
Nella romana Accademia di Santa Cecilia giganteggia, solido e alto come una quercia, a 82 anni, il grande direttore tedesco. Senza bacchetta, mima con il viso e il corpo gli attacchi, le sfumature, i colori che vuole ottenere dall’orchestra. Diciamolo subito: Masur ama le sonorità possenti, le tinte robuste, come è della musica di casa germanica. Noi però non ci siamo abituati molto. L’Italia è la patria del canto, esige orchestre dal suono soffice, ritmi vivaci, insomma estro e sentimento.
Perciò ascoltare l’ouverture dall’opera Genoveva di Schumann, con i temi musicali esposti dagli archi che si insinuano tra gli ottoni come un vento gagliardo nella foresta, scuote. Quando poi si passa al Concerto n. 4 per pianoforte e orchestra di Beethoven, complice la pianista russo-viennese Elisabeth Leonskaja, ci si domanda dove la sia la poesia di questo sottilissimo, ombroso brano, pieno di fremiti appena accennati, si direbbe l’altra faccia del compositore, quella più intima, quasi femminile. Anche perché la Leonskaja ha un tocco forte, una robustezza di suono che a chi ha da poco ascoltato lo Chopin di Bachacz dà un senso di stordimento.
Masur accompagna in modo sostenuto: il dialogo tra lo strumento e l’orchestra non è a favore del piano, come succede spesso, ma cerca l’unità in modo determinato, perentorio. Il direttore sente la musica come un tutt’uno grandioso e potente, un “con-certo” vitale. Ed egli si muove, accenna, sussurra, saltella, impone dal podio, con una energia giovanile (i direttori d’orchestra sono in genere molto longevi…) che ottiene dai complessi ceciliani di entrare – e noi con loro – in un’altra sfera di sensibilità e di cultura: quella del romanticismo germanico.
Lo si avverte quando è la Seconda Sinfonia di Brahms a chiudere il concerto. Brahms è sempre ambiguo. Questa sinfonia è luminosa e gioiosa oppure triste e introversa? C’è chi la sente e la interpreta in un modo e chi nel modo opposto. Legittimamente. Brahms è infatti l’anima germanica allo stato puro: infantile e decisa, fantasiosa e ordinata. E Masur possiede, come pochi, il segreto per comunicarcela, grazie al gesto evocativo, alla convinzione personale. È anche qui un Brahms scultoreo, con accenni angosciosi però ben chiusi nell’architettura salda: come una tela di Friedrich o una tavola di Durer.
Masur, che tornerà a settembre per le nove sinfonie beethoveniane, è riuscito a far breccia nell’orchestra ceciliana, trasformata. Basta ricordare le sottolineature lunghissime di certi passaggi di violoncelli e contrabbassi in Beethoven. Mai sentite così gravi, così forti. Come passasse la Storia.