Il ritorno di Hillary
L'annuncio della candidatura di Hillary Clinton alle presidenziali americane del 2016, per quanto non giunga inaspettato, ha suscitato una lunga serie di reazioni e commenti sia in patria che all'estero. Secondo il New York Times , «qualunque sarà il risultato, la campagna elettorale 2016 della Clinton aprirà un nuovo capitolo nella vita di un personaggio che ha catturato l'attenzione pubblica sin dai tempi della presidenza del marito Bill. E' stata la co-amministratrice, la prima first lady ad essere eletta al Senato, e un diplomatico che ha girato il mondo sorprendendo il suo partito nel servire il presidente – Barack Obama, ndr – che l'aveva sconfitta alle primarie». Già, perché quello di Hillary è un ritorno, cosa assai insolita in un Paese in cui vige la regola non scritta che alle urne non esiste una seconda possibilità: ma lei «si lancerà per il secondo e forse ultimo tentativo di arrivare alla Casa Bianca con una fama pressoché indiscussa e un forte supporto della base».
Una corsa in discesa, quindi? Non del tutto. Il britannico The Independent identifica i sette punti di forza della Clinton, alcuni dei quali però potrebbero al tempo stesso rivelarsi le sue più grandi debolezze: l'età – 67 anni, soltanto l'allora settantenne Reagan era più vecchio di lei -; l'approvazione del 60 per cento dell'elettorato secondo i sondaggi – un buon punto di partenza, ma che nasconde il rischio di pesanti cadute di popolarità al primo passo falso -; la vasta disponibilità di finanziamenti per la campagna elettorale – 2,5 miliardi di dollari, quasi il doppio di Obama nel 2012: garanzia di copertura mediatica, ma anche di accuse di connivenza con i grossi gruppi finanziari -; l'essere donna; l'eredità politica del marito – che raccoglie consensi entusiastici o disapprovazioni feroci in percentuali pressoché eque -; la sua determinazione; la sua capacità di attrarre voti in tutte le fasce delle popolazione.
Se vincesse, osserva il londinese Wall Street Journal, «riuscirebbe nell'impresa di mantenere lo stesso partito alla Casa Bianca per dodici anni, cosa rara nella storia americana»; e che peraltro era riuscita negli ultimi cinquant'anni, osserva il San Francisco Chronicle, solo al partito repubblicano con Reagan e Bush padre. Eppure, sostiene l'editorialista del Washington Post E. J. Dionne, sarà lei – e non il suo presunto sfidante nonché figlio di quest'ultimo presidente, Jeb Bush, – a raccoglierne l'eredità. Anche Bush padre, infatti, si trovò a succedere ad un presidente – Ronald Reagan – che aveva ottenuto grandi successi e beneficiato della ripresa economica, ma verso il quale gli americani avevano iniziato a dimostrare segnali di stanchezza con le elezioni di metà mandato: «Così Bush si presentò come un «Reagan plus» – ricorda Dionne -, annunciando un nuovo corso e facendo appello a coloro che avevano votato per Reagan ma non ne erano sostenitori convinti, lasciando una distanza strategica tra lui e il presidente uscente».
Un po' quello che Dionne ravvisa nel video di lancio della campagna elettorale della Clinton: «Abbastanza vicino ad Obama per non perdere i suoi sostenitori, non potendosi aspettare lo stesso entusiasmo», ma presentandosi allo stesso tempo come qualcuno che «ha una lunga storia di collaborazione con i Repubblicani, ed è sufficientemente determinata per rompere l'attuale polarizzazione». Perché, come ha notato lo «stratega» di Obama, David Axelrod, «gli elettori cercano sempre dei correttivi a ciò che non ha funzionato nell'amministrazione precedente»; e uno di questi è appunto lo stallo che si è creato con il partito repubblicano, che alcuni attribuiscono alle maniere non sufficientemente decise del presidente attuale.
Intanto anche l'America latina, il «giardino di casa» degli Usa, guarda a quanto accade: il messicano El Universal la definisce «la candidata inevitabile» in virtù della sua storia che quasi la costringe a dimostrare di potercela ancora fare; e anche l'argentino La Naciòn lo definisce «un annuncio senza sorpresa», mettendo però in guardia contro «due svantaggi storici: mai i nordamericani hanno eletto una donna alla Casa Bianca, e solo una volta un rappresentante dello stesso partito per tre mandati consecutivi». Insomma, la storia personale di Hillary la aiuta, quella americana no.