Il ritorno di don Alessandro Manzoni

Pubblicata l'edizione di passaggio tra la prima edizione dei Promessi sposi e l'ultima. Un percorso che fa scoprire un autore alla ricerca della perfezione. Se ci si libera dei pregiudizi attorno alla sua figura e delle reminescenze studentesche si scopre una commedia umano-divina che tutti interpella
Un'illustrazione de I promessi sposi

Diciamola tutta, che Manzoni  è stato da lungo tempo confinato nelle lezioni – noiose – di letteratura, complici gli insegnanti che all’insegna della modernità, o di una ben chiara ideologia, da decenni lo hanno confinato negli scantinati della cultura barbosa e, come oggi si dice, “per vecchi”. Gli hanno preferito personalità di tutto rispetto, come Pirandello, Verga, Calvino, e di meno rispetto – letterariamente parlando – come Baricco e amici. Dimenticavano, i suddetti insegnanti e di conseguenza gli svogliati loro allievi, che gli artisti veri non invecchiano mai, ma piuttosto sono quelli che non accettano che la fatica dell’incontro e la gioia di scoprirli o riscoprirli.

Di riscoperta si può allora parlare, osservando i testi che stanno uscendo intorno al nostro massimo narratore. Si tratta di commenti e viaggi intorno alla pubblicazione della seconda puntata, chiamiamola in questo modo, dei Promessi sposi, quella cioè dell’edizione 1827, intitolata Gli sposi promessi. A metà strada fra la prima stesura, il Fermo e Lucia e la definitiva,  I promessi sposi, del 1840.

Ha un senso pubblicare una edizione di passaggio fra la prima e la definitiva?
Se si dà per chiaro che ciò che l’autore consegna come definitivo è quello che corrisponde al suo ultimo pensiero, specie in poesia, è tuttavia piacevole ed istruttivo affacciarsi a vedere il cammino che ha condotto  il Manzoni, nel caso, dalla vicenda a blocchi della prima stesura a quella assai più “cinematografica” conclusiva.

Negli Sposi promessi ci sono ancora digressioni storiche, considerazioni, episodi tolti che saranno poi recuperati nel 1840 (quello celebre della “madre di Cecilia"), ma  si sente un autore in progress: un insoddisfatto che corregge e ricorregge la scrittura, la punteggiatura, la lingua in particolare, liberandola dai francesismi e dai lombardismi. Non è difficile immaginare Manzoni, nella casa ordinatissima – tuttora visitabile – e precisa, intento a saggiare meticolosamente espressioni, termini e “suoni” (perché Manzoni è scrittore-musicista finissimo…).  Hanno detto per questo motivo che  era un nevrotico, ma in verità un po’ di nevrosi ce l’abbiamo tutti. Lui la sfogava e la superava scrivendo, coltivando il giardino. Non era poi male!

Perciò, l’invito che la ristampa in due tomi degli Sposi promessi fa al lettore non critico letterario o specialista, oggi, è di recuperare la versione ultima e fermarsi ad ogni episodio. È un mondo, una commedia umano-divina da percorrere  assaporandola nella sua verità, che un uomo come Verdi, che non era certo un bacchettone, aveva colto perfettamente.

Manzoni ha bisogno che gli venga tolta la montagna di pregiudizi con cui certa critica l’ha soffocato. Se poi a qualcuno piace osservare il percorso fatto per arrivare alla perfezione finale, farà certo delle interessanti scoperte di come don Alessandro sia arrivato, con inesauribile fatica e tenacia, a creare quella lingua che dice perfettamente i sentimenti umani, la storia dell’uomo, la sua civiltà.

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