Il ritorno di Casanova
Gabriele Salvatores ha 70 anni, l’età del tempo da vivere che si restringe, dello sguardo indietro e dell’ansia per il futuro. Il ritorno di Casanova dalla novella di Arthur Schnitzler è un film dello specchio: quello del vecchio seduttore (Fabrizio Bentivoglio) che non accetta i limiti, recita attorialmente la sua parte anche se è finita e vuole uccidere la giovinezza che non ha più. E quella dell’anziano regista celebre (Toni Servillo), solo, geloso del giovane regista rampante che gli strappa il Leone d’oro alla Mostra di Venezia ma che forse ritrova vita in un nuovo amore.
Il tema della vita che fugge, della necessità di accettare il cambiamento per chi non è più giovane, attraversa malinconicamente – con punte di disperazione e di rabbia, di paura e di pianto – il film: in bianco e nero quando è in scena il regista, a colori e in costume quando si torna al Settecento. Ma dietro a tutto c’è Salvatores, per cui viene il sospetto di un film molto pensato, molto personale ed emotivo, anche caustico talora sull’egocentrismo di attori e registi, oltre alla recitazione perfetta di Servillo (che non gigioneggia), di Bentivoglio, gran signore, di Sara Serraiocco e Bianca Panconi. Musica non invasiva, fotografia parlante e misurata, velata di tristezza, di crepuscolo con una Venezia muta e dolorosa. Film sulla solitudine degli uomini anziani, o accettata aprendosi alla speranza, o ripiegata sulla morte. E sul cinema, meravigliosa finzione: che non è però la vita.
Delta
È un mondo perduto quello del delta del Po. Trafficanti rumeni poveracci e spauriti, pescatori rodigini e ferraresi in guerra contro questi bracconieri. Umidità, nebbie, foschie e tanta rabbia in questa piccola guerra di confine. Dove il film diretto con passione da Michele Vannucci schiera due personaggi a tutto tondo: Osso (Luigi Lo Cascio) che cerca una soluzione pacifica anche col passare da uomo vile ed Elia (Alessandro Borghi) una volta pescatore “legittimo” e ora passato dalla parte dei bracconieri stranieri. Una guerra di giorno e di notte fra due vite, due passioni: quella dalla legalità ad ogni costo e quella invece della trasgressione ma anche di un fondo di pietas per i poveri venuti a sopravvivere, pur se in modo illegale ma pure truffati dagli italiani disonesti.
Un Far-West nostrano e provinciale nel Polesine – terra dimenticata – tra barche, fucili, scarse parole, una osteria dove si beve, amori nascosti e la bellezza di una natura inquinata eppure affascinante. Solitudine, tanta. Il piccolo film diventa grande quando la storia del conflitto fra i due uomini diventa in realtà un conflitto tra due modi di concepire l’esistenza, finendo nel dramma e in un’ansia di liberazione forse ancora inappagata.
Il messaggio passa ed è quello della convivenza difficile, al di là degli idealismi, tra culture diverse, tra volontà di accoglienza e invece di sopraffazione. I due attori danno vita a due umanità contrapposte: Borghi lavora col corpo, mani, occhi, massa, scarne parole; Lo Cascio con la tensione rabbiosa, livida, l’ambiguità e una tristezza acida irrisolta, forse.
Ne esce un film teso, rapido, umido dove le guerre tra gli uomini stanno sotto un cielo percorso da uccelli, da venti, tra acque che paiono immobili. La fatica del dover vivere insieme, di diventare uomini, raccontata con un fondo di pietas per tutti, gli amici e i nemici. Originale, questo esempio del cinema italiano “nuovo”. Da sostenere.
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