Il ritorno dei Gonzaga
Collezionare, che passione. Anche oggi, come mostra l’esposizione della raccolta Agnelli al Lingotto torinese. Nel Rinascimento, poi, essa è culto della bellezza, gioia dell’intelletto, conversazione intima con il capolavoro. Medici, Estensi, Sforza ne sono addirittura ingordi.Per non parlare di Isabella d’Este “la marchesana”, sposa di Francesco II Gonzaga, che nel suo “camerino d’alabastro” raccoglie antichità e opere “moderne”, dando la caccia a personaggi come Giorgione e Giambellino. Passano questi pensieri, appunto, fra le stanze di Castel San Giorgio, vedendoli i Gonzaga, non belli ma intelligenti e astuti, far mostra di sé nella Camera degli sposi. Immaginarli poi nel Palazzo Te, fra le mitologie prebarocche di Giulio Romano: stanze da percorrere, consiglieremmo, prima di entrare nella “celeste galeria”, ossia negli ambienti dove, dopo cinque anni di lavoro, sono tornati 90 dipinti e centinaia di oggetti di una collezione straordinaria (duemila dipinti, ventimila oggetti preziosi), dispersa da una prima vendita a Carlo I Stuart nel 1628 e poi dalle ruberie dei lanzichenecchi nel 1630: un tesoro d’arte e di cultura che aveva fatto della piccola città padana un faro di bellezza, un esempio presto imitato. Ora, ci si perde gli occhi, perché i capolavori tornati non tutti, ovviamente – sono comunque tanti e di tale valore da lasciare sbigottiti. Coprono epoche lontane fra loro – dall’età romana a Rubens, per fare un solo esempio – eppure li lega un identico amore per il lavoro, la fantasia, l’intelligenza umana: in una parola, la capacità creatrice e sublimatrice dell’uomo, che noi chiamiamo “poesia”. Del vecchio Mantegna – un artista legatissimo ai Gonzaga – ecco il Cristo morto, del 1480, da Brera, un concentrato di spazi e di sentimenti, nell’angustia di un obitorio: il doloroso colore della morte. Di Lotto, il Triplice ritratto, da Vienna, ove Lorenzo ci passa ancora una volta la sua malinconia. E se Veronese invece seduce con le sete brillanti della Giuditta (da Vienna),Correggio, a due passi da Mantova, canta il mito con la calda vena padana (Venere, Amore e Mercurio, da Londra). Brilla, naturalmente, l’astro Tizia- no, prediletto – anche se carissimo – da Gonzaga ed Estensi: il Ritratto di donna allo specchio (dal Louvre) dice sull’eterno femminino molto di più di qualsiasi discorso, basterebbe solo la mano che si accarezza i capelli; così lontana dal pallore teatrale di Guido Reni (Toeletta di Venere), col quale siamo già nel secolo XVII. Ora la star è Rubens: pittore, ambasciatore, mercante per conto dei Gonzaga (acquisterà a Roma la Morte della Madonna di Caravaggio, rifiutata dai committenti, un colpo da maestro). Di lui ecco Vincenzo II fanciullo, il cui occhio vivace è reso palpitante dalla pennellata estrosa del fiammingo. E pensare che sarà questo Vincenzo a decretare la morte della “celeste galeria” Nella quale non c’erano solo quadri – italiani, fiamminghi – e statue antiche, ma “pezzi” della cosiddetta “arte minore” che, a distanza riavvicinata, appaiono invece autentiche meraviglie: segni di una civiltà in cui tutto ciò che circondava l’uomo doveva essere “bello” (anche se ad uso esclusivo dei pochi privilegiati). Penso alle armi da guerra, da caccia, da parata, finemente cesellate e decorate; ai bronzetti all’antica, ai crocifissi di bronzo e d’argento, ai cristalli, ai reliquiari, che decoravano stanze, armadi, librerie. Ai cammei preziosissimi per antichità e valore, alle medaglie dorate coi profili dei duchi e, in particolare, agli strumenti musicali. Perché Mantova è stata per la musica qualcosa di magico, se si pensa che l’Orfeo di Monteverdi – l’atto di nascita del teatro musicale moderno – fu rappresentato per la prima volta qui nel 1607. Musica, arte figurativa, letteratura, armonia del vivere si sprigionano quindi ancora una volta dalla “galeria”. Ci si chiede, tuttavia, da dove venga e dove volesse portare tanta smania di bellezza, così a volte smodato desiderio di circondarsi di cose preziose: una passione che in ogni momento della civiltà europea investe l’uomo. Non è solo lusso, sfoggio di potere. C’è anche qualcosa di più profondo: il desiderio di rimanere o che resti qualcosa di immortale. Niente di meglio della bellezza, sotto qualsiasi forma, forse lo può esprimere: e questo dà senso alla ricostruzione attuale della scomparsa “galeria”. Non qualcosa di nostalgico o di archeologico: ma un partecipare ad un patrimonio che non è più solo dei Gonzaga, ma di tutti. Un gioire davanti alla capacità dell’uomo di evocare, rendendola presente con l’arte, la propria passione per la vita. Gonzaga. La Celeste Galeria. Mantova, Palazzo Te e Palazzo Ducale, fino all’8/12 (catalogo Skira) www.mostragonzaga.