Il risveglio
Una definizione classica di filosofia potrebbe suonare così: è la scienza o il sapere che attraverso le ultime cause vuol conoscere con la ragione umana la realtà totale. Vorrei cercare di spiegare cos’è per me la filosofia, scostandomi in certo modo da questa definizione tradizionale. Quando e come nasce in noi la filosofia? Tutte le persone di questo mondo hanno dei problemi: personali, di famiglia, di lavoro, economici, ecc.Molte di queste persone studiano o hanno studiato anche filosofia: si pongono cioè problemi che interessano profondamente l’umanità, quali, per esempio, come si conosce, che cosa è la parola, la storia, l’esistenza e così via. Si può dire che queste persone facciano filosofia? Lo si può dire, ma solo in un senso molto relativo. Queste persone studiano la filosofia, o riflettono su problemi di ordine filosofico, però non si può dire ancora che facciano filosofia. Una persona non incomincia a fare veramente filosofia quando si pone dei problemi, per quanto importanti siano, anche se essi hanno una ripercussione nel soggetto: questo approccio alla filosofia può essere ancora qualcosa di artificiale, delle domande che vengono poste in maniera accademica, che restano di fatto esterne alla persona. La vera filosofia comincia quando uno si sveglia, ad un certo momento della sua vita, e scopre di esistere. È da questa sorpresa – come hanno detto tanti grandi filosofi – che nasce la filosofia, il vero pensare: dallo stupore improvviso che si ha della propria esistenza o dell’esistenza dell’altro e delle cose che ci circondano. Fin da bambini siamo stati abituati a vedere le cose, a conoscere persone, a sapere che esistono; non ce ne stupiamo, tutto questo ci appare ovvio. Ciò significa che non abbiamo ancora fatto la scoperta della profondità del pensare. Il primo stupore è quello di percepire che esistiamo. È una scoperta che non viene da un ragionamento: può venire solo da qualcosa di grande, di gioioso e doloroso insieme. È quello stupore di esistere che Maritain chiamava intuizione metafisica dell’esistenza. È l’esperienza di una persona che dice con meraviglia: io esisto, io sono. In questa situazione non si tratta più di un problema filosofico che ci si pone davanti per essere studiato (come un problema matematico o, diciamo, enigmistico, da risolvere); si tratta di uscire dal mondo che si vede, dal mondo che si sente e nel quale si è immersi, accorgendosi che al di là di questo mondo, che in un certo senso disturba il nostro esistere, c’è la nostra vera esistenza. Questo è il dato che si pone alla coscienza, e al di là di tutti i problemi estrinseci. Di fronte a questa percezione tutto cambia. Si incomincia a vedere il mondo con un occhio totalmente diverso, in quanto si è andati al di là di tutto quello che era nozionistico, di tutto quello che era semplicemente acquisito. E ci si trova soli con sé stessi. Ci si accorge che prima si era circondati da tante parole di tutti gli uomini, da tante réclame che ci hanno fino a quel momento distolto dal vero sapere. Solo riuscendo ad andare al di là, quella persona si apre all’amore della sua esistenza e desidera conoscerlo in profondità. Solo allora essa è veramente nell’amore della sapienza, nella filosofia. La filosofia come scelta Di fronte a questa percezione della propria esistenza, ci si accorge che tutto quello che si sentiva fino a quel momento non ha più nessun senso, non ha più per noi alcun sapore. È una situazione nuova, nella quale è coinvolto tutto il nostro essere, tutto il nostro agire, tutto il nostro divenire: che cosa devo fare? dove andare? come devo comportarmi con gli altri? È come un risveglio all’esistenza, di fronte al quale sembra che prima dormissimo fra rumori che ci soffocavano. Ci si ricorda dei problemi che ci eravamo posti nella vita fino ad allora, e delle risposte che ci erano state date da parte dei genitori, della famiglia, degli insegnanti: esisto perché devo fare questo; esisto per quell’altro ; esisto in questo senso. Ma anche quando quelle risposte fossero vere, percepiamo adesso un abisso fra la domanda che ci è posta con la scoperta della nostra esistenza e le risposte che avevamo ricevuto. Sono risposte che in qualche modo possono appagare la nostra mente, ma non certamente questo dato di fatto che ci si è presentato d’improvviso, e che è la percezione del nostro esistere. Si avverte il niente di quelle risposte, esse non dicono più nulla, anche perché non sono sentite come proprie. Si avverte una spaccatura fra quello che si è e quello che fino a quel momento si è conosciuto. Si penetra nella filosofia con questo risveglio che si prova nell’essere, nell’esistere. La filosofia, cioè, nasce dall’accorgersi intenso dell’esistere, dal protendersi verso una risposta chiara e limpida a tutti i problemi che ci si pongono. È allora che si sceglie la filosofia. Certamente, questa non è una definizione, è la descrizione di un’esperienza. Però è l’unica maniera, mi sembra, di far capire che la filosofia, prima d’essere materia da studiare, è una determinazione della propria esistenza. Ciò che caratterizza il pensare filosofia), pertanto, non è l’elemento discorsivo o ragionativo, è una percezione profonda del reale attraverso la scoperta della propria esistenza. La filosofia non si trova originariamente né nel ragionamento né tanto meno nella negazione della ragione, ma nel rapporto tra l’esperienza e l’autocoscienza dell’esistere. È nel congiungimento fra questi due elementi, nella ricerca del rapporto tra l’espressione razionale o verbale e il fatto dell’esistenza, che si trova il vero pensare. Si potrebbero leggere tanti libri di filosofia, insegnarla per tutta la vita, scrivere trattati sui problemi filosofici: se non si è giunti a risolvere la divisione che c’è in ciascuno di noi fra le risposte già date e il nostro essere, si potrà essere un erudito o un ripetitore di temi filosofici, non un vero filosofo. Il rischio del vero pensare Per questo la filosofia implica un rischio: il rischio della propria tranquillità. Fare filosofia, nel senso che io intendo, significa dire: io preferisco rischiare, non essere tranquillo; io voglio sapere, voglio risolvermi, voglio andare più in là. E questo è un passo terribile, perché nessuno ci aiuta, perché le risposte che tutti ci danno noi le sentiamo prefabbricate, qualcosa che ci rimane insignificante perché la vera risposta dobbiamo cercarla in noi stessi. Solo in questi momenti noi sappiamo qual è il vero problema, lo sentiamo, anche se non riusciamo ancora ad esprimerlo, a chiarirlo, a dirlo. È la scelta di una non-pace di fronte a quella apparenza di pace che offre il mondo che ci circonda. È una scelta che implica il cambiare tutti i rapporti con gli altri. Per questo un aspetto che direi tragico di questa situazione è che quasi nessuno ci capirà. La sorpresa implica una rottura col mondo che ci circonda: quella sorpresa che è la meraviglia di essere nel mondo senza essere nel mondo. Ci si taglia fuori da tutti gli altri, si è soli, nudi. Tu dici una cosa e gli altri ne capiscono un’altra; loro dicono una cosa e tu forse capisci il contrario. Praticamente, non si riceve nessuna soluzione dagli altri, e pur sapendo che si deve trovare la soluzione con gli altri, ci si sente soli, non nel senso di non avere compagnia ma nel senso dell’impossibilità radicale, metafisica, di sentirsi con qualcuno. È come se si vivesse in un altro mondo. È come entrare in una caverna, con il rischio di non uscirne più. Ma tutto questo non interessa in quei momenti: sarà quello che sarà, io non riesco ad avere pace finché non accetto di affrontarmi, di affrontare il problema della mia esistenza e del mio conoscermi. Ci si accorge che siamo in un mare, in un abisso, in un universo buio. Abbiamo appena cominciato a camminare e non possiamo più tornare indietro. Non resta che andare avanti. Questo è il dramma dell’autentico filosofare. Percezione del non-essere Per tutto questo, se è vero che la filosofia nasce nel risvegliarsi alla percezione dell’essere, si può anche dire che nasce dalla percezione del non-essere. Infatti, quella sorpresa di esistere che è all’origine della filosofia implica lo stupore di accorgersi che non si dovrebbe esistere. Nel sorprenderci di esistere, quello che ci meraviglia non è tanto il fatto di esistere quanto il trovarci ad esistere non dovendo esistere, perché se esistessimo dovendo esistere non ci sarebbe più la sorpresa. Per il fatto stesso che ti sorprendi ad esistere, ti accorgi che potresti non esistere. È questo, in fondo, che ti permette di accorgerti che sei e che ti sorprendi. In altre parole: ci si accorge che esistiamo ma che non si è l’essere. È in questo senso che la filosofia nasce dalla percezione del non-essere – non la percezione del nulla, del non esistere: quella che ci colpisce non è tanto la sorpresa di essere quanto la sorpresa di non essere l’Essere come tale, l’Essere assoluto. È questa sorpresa che ci dà la sensazione dell’essere. I due filoni della filosofia È in questo momento fondamentale che la filosofia si divide in due filoni. Quando chi fa filosofia non ha paura del buio, del problema, della non-pace, e abbandona tutto per cercare la verità penetrando in questo buio, costui deve aprirsi immediatamente ad un’altra scelta: sentirsi con un Altro o sentirsi senza Alterità. Non esistono filosofie che possano evitare la scelta, almeno implicita, di uno di questi due binari; essa è inevitabile, perché è in questa scelta di fondo, sull’Essere o sul Nulla, che tutto si decide. Si entra in un universo illimitato dove manca il respiro, dove non si può più voltarsi indietro, dove forse si intravede l’uscita ma piccolissima, lontana. Solo che ci sono alcuni che sentono la presenza di due occhi, in fondo al buio, che li stanno guardando: non li vedono con chiarezza, ma camminano lo stesso, nel buio, cercando di trovare la congiunzione tra quello che si è, quello che si vuol sapere, e quello sguardo più percepito che visto. E si sentono seguiti da questo sguardo, e camminano, e si aprono alla soluzione dei problemi con questa, non dico certezza, ma coesistenza radicale con l’Altro. Altri non sentono questo sguardo, e camminano da soli. Il buio rimane per entrambi, ma con esiti diversi. È così che le filosofie si distinguono: quelle che camminano nel buio sentendosi guardate da un Altro – e volendo essere guardate -, e quelle che camminano nel buio senza che importi di questo sguardo, o senza avvertirlo. Così nascono la filosofia atea e la filosofia che possiamo chiamare di Dio. E, ricordiamolo, una filosofia può essere atea anche se si vuole cristiana, e una filosofia può essere di Dio anche se non è cristiana: perché una filosofia è di Dio o non è di Dio non se ha parole o etichette cristiane, ma se al centro del pensare, dell’esistenza come pensiero, si sente quello sguardo e lo si accetta, o si prescinde da esso. O uno sente d’essere niente, e semplicemente percepisce subito il tutto; oppure sente che è niente ma (forse per la mancanza di una vera semplicità) non gliene importa, si chiude in quel niente. Pensare in due Nel momento in cui mi accorgo di esistere e al tempo stesso che non dovrei esistere, e dunque mi sorprendo con stupore di esistere, in quello stesso momento sento che ci deve essere una giustificazione a questa mia esistenza. Se riesco a lasciarmi abitare da questo stupore (è questione di luce, di generosità), mi rendo conto che esisto perché esiste l’Esistenza, cioè esiste un Altro che è l’esistenza in assoluto, cristianamente dico: esi- ste Dio. Io sono nato da e partecipo di questa Esistenza. Non potrei dare nessuna spiegazione della mia esistenza né della sorpresa dell’esistere, né dell’angoscia che ne deriva, se non ci fosse Qualcuno, un Altro, che pone in me sia l’esistenza, sia la percezione di essa, sia la sorpresa della non-esistenza. Il pensare, a questo punto, non è più solo, diventa un rapporto personale con un Altro, un Essere vicino e profondamente in me. Mi percepisco come il punto di arrivo di un raggio partito da un sole: e in questo punto nel quale mi trovo così limitato – un punto! – e così angosciato, io colgo proprio la presenza di questa Esistenza per eccellenza che ha dato a me la possibilità di sperimentare sia l’esistenza sia lo stupore dell’esistenza. Allora, tutto il mio pensare, tutto il mio mondo ha un senso tanto in quanto, accortomi di questo Essere personale che è fuori di me e dentro di me, mi apro alla comunione con lui. In questo rapporto personale con l’Altro, con Dio mi accorgo che io debbo sempre pensare in due: sono io nel mio rapporto con Dio, io e il mio rapporto con Dio, io con il mio rapporto con Dio, che comincio a pensare filosoficamente alla realtà delle cose, comincio a scoprire la realtà delle cose. La scoperta degli altri In questo contesto, lo stupore per la scoperta degli altri è una sorpresa bella, che mi da gioia pur nella limitatezza mia e di essi. Mi accorgo che tutto mi è donato, e questo dono sono tutti gli altri, tutto l’esistente: tutto ciò che esiste del passato, nel presente, ed esisterà nel futuro. È il presentarsi a me dell’Altro-Dio, che in sé mi presenta tutto come gioiosa esperienza dell’esistenza, anche se nel dolore e nell’angoscia connessi all’esistenza. È per questo che non posso non aprirmi agli altri, che vuol dire amarli, apprezzarne l’esistenza, sapere che la loro esistenza ha – come la mia – una giustificazione d’amore. Il fatto è che io ho scoperto Qualcuno che mi ama, e in questo essere amato amo le realtà che mi si presentano. Sono realtà limitate e finite, certo, così come io sono limitato e finito – e quindi con tutti gli errori, con tutta la finitudine che il limite comporta -; però, al di là di questo limite, nel grezzo che circonda ogni uomo, c’è una pepita d’oro che devo mettere in luce e accettare. Il far filosofia diventa, a questo punto, dialogo con gli altri nel dialogo con l’Altro: il pensare insieme agli altri, il dialogare con i loro pensieri, è un motivo necessitante per chi accetta l’Altro, Dio come realtà d’amore nella quale è spiegata la mia esistenza e l’esistenza di tutti gli altri. Il cristianesimo ha rivelato al pensiero questa realtà grandiosa: Dio è Amore. È questo che darà al mio stupore il timbro della gioia. Non riuscirò ad operare subito una sintesi in senso assoluto, ma andrò arricchendomi di tutta la realtà degli altri, mi muovo già verso una certa sintesi che andrò costruendo, come senso del mio esistere, nella comunione con l’Altro e con gli altri. Sintesi mai completa, lo ripeto, mai conclusa, perché non posso conoscere tutti, perché non avrò la gioia di lasciarmi cogliere dalla sorpresa di tutti e di tutto il mondo. Ma potrò cominciare fin d’ora a tentare di compiere questa sintesi, con una ricerca continua e con una gioia continua, sapendo che essa esiste già in Dio, in quel sole dal quale partono tutti i raggi. Pensare, quindi, significa non solo essere soli con Dio, ma sentirsi nello stesso tempo in comunione con tutti gli esseri dell’universo. Mi ritrovo immediatamente in una famiglia dove tutti hanno da dare qualcosa; essi sono una parola, e anch’io sono una parola: una parola esistente, sostanziale. Mi trovo quindi in una gioiosa e anche dolorosa compagnia, perché ci sarà sempre dentro di me e negli altri questo scacco, questa esperienza brusca che ho fatto dell’accorgermi di essere esistente e di non essere l’esistenza. Questo brusco risveglio che trovo in me e anche negli altri, sarà motivo continuo di dolore e di frizione, ma di un dolore che, se accettato e superato, mi fa scoprire quella pepita d’oro che in ciascuno è la presenza vera di Dio. Il mio modo di pensare diventa, quindi, pensare con: il dialogo diventa il mio modo di pensare. Dialogo che significa il darsi del pensiero dell’altro a me, di me all’altro, nella reciprocità; e in questo mutuo scambio ci muoviamo in una verità sempre più piena, più compiuta. È nel dialogo la ricchezza del mio pensare. È lì che il mio occhio si apre finalmente sulla meta che mi è offerta da Dio in Dio. (Continua)