Il rimorso di un fenomeno
Una danza dalle origini pagane e medievali, che affonda le sue radici nella condivisione dei propri mali con la comunità. Ma ormai viene definita semplicemente un ballo salentino. Viaggio nella storia e nell'oggi del tarantismo.
Una donna gettata a terra, vestita in bianco, s’agita animata da un fuoco nelle vene. Il ritmo cresce e, come coltellate al ventre, i colpi del tamburo la trafiggono mandandola in estasi. Attorno, centinaia di persone tengono il tempo, con le mani e con i piedi, gli occhi fissi negli occhi della donna che vaga con lo sguardo nel vuoto, annientata da un veleno interiore. Qualcuno si avvicina, lancia dei drappi colorati a terra, vicino la “tarantata” e non appena la musica aumenta, la donna, carica di energia, prende a danzare freneticamente tra grida e spasmi. Questo per ore, persino per giorni interi, con poche pause, e con molto denaro.
Mi ritrovo nel Salento d’estate, esattamente a metà tra i due grandi avvenimenti che sconvolgono i visitatori e i turisti, quello della festa di S.Pietro e Paolo a Giugno e “le notti della Taranta” ad Agosto. Sono emozionato, guidando verso Sud, di vedere queste distese gialle perdersi fino al mare, accompagnate da ulivi centenari e da impianti eolici che, per quanto stonino, aiutano a rendere il paesaggio suggestivo. Ma il mio desiderio è quello di poter assistere con i miei occhi al fenomeno del tarantismo. Di origini pagane medievali, questo rituale magico-religioso-sociale consiste in una specie di esorcismo coreutico e musicale. È un sistema culturalmente elaborato di liberazione dall’angoscia, di distruzione di tutti i conflitti psichici e delle tensioni sociali. Frutto di una forte tradizione culturale, il tarantismo aveva come scopo principale quello di condividere un pesante rimorso con la comunità. Il fardello che gravava sulle spalle di molti va compreso nella storia culturale della Puglia. Una terra tra “l’acqua salata e l’acqua santa”, un paese povero e dalle struggenti pianure di polvere e terra arida in cui le donne erano emarginate e sfruttate e spesso non potevano esprimere i loro pensieri, neppure frustrazioni e dolori. Allora il fardello lo si portava in silenzio fino a quando non si poteva condividere le proprie sofferenze con tutta la comunità. Qualcuno imbracciava gli strumenti musicali e si prendeva cura del “tarantato” facendolo danzare fino a consumare i suoi veleni interiori, fino ad annientare quella parte di se stesso che lo avvelenava nell’anima, fino ad “uccidere la tarantola”.
Oggi invece, questo fenomeno è quasi scomparso, frammentato negli anni trascorsi dall’intervento della chiesa cattolica, dall’illuminismo, dal positivismo e dalle scienze mediche. Ma il colpo decisivo lo sta inferendo la modernizzazione, strumento di appiattimento culturale e di distruzione del particolare. L’avvento della globalizzazione, dei mass-media e una condizione economica migliore hanno portato la Puglia ad essere “all’altezza” delle altre regioni, annientando quello che di particolare aveva. La gente parla del tarantismo ormai come una danza salentina, un ballo insegnato da genitori a figli. Il consumismo ha relegato il misticismo nell’angolo asettico del commercio in cui tamburelli e cd musicali illudono i turisti di una qualche “vera taranta”. Quando si parla del fenomeno, lo si fa a bocca stretta, sussurrando, per evitare di dimostrare di essere “arretrati” rispetto il futuro della modernizzazione. La Puglia sta cambiando, è immersa nella sua “liminalità”, per citare Turner, e non c’è più spazio per un agire religioso e socialmente valido di questo fenomeno culturale. La povertà non opprime più come un tempo, per fortuna o per disgrazia, la gente viene proiettata nel mondo attraverso un monitor, per fortuna o per disgrazia, le donne sono state emancipate, per fortuna…
Pare che per questa pratica secolare non ci sia più spazio nell’uomo del duemila, ci bastano le serate consumistiche in cui si danza fingendo di “continuare la tradizione”. L’unico spazio che il tarantismo può ricoprire con eterno ed immutabile vigore, pare esser quello di qualche bancarella nelle sagre popolari, laddove le tarantole incise nei tamburelli posso rintoccare l’ultimo eco di un fenomeno antico e umanamente desiderabile.