Il Requiem con Temirkanov

Il celebre direttore esegue con l'orchestra di Santa Cecilia uno dei capolavori di Mozart. Con creatività e compostezza regala al pubblico brividi e contemplazione
direttore requiem

Yuri Temirkanov, una delle migliori bacchette al mondo – per chi scrive forse il numero uno, insieme a Claudio Abbado – è tornato a Roma, all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Ha presentato, dopo la celebre Sinfonia n. 101 di Haydn, detta dell’orologio (eseguita da un’orchestra che aveva avuto la possibilità di poche prove…), il Requiem mozartiano.

 

Pagina arcinota, e perciò pericolosissima. In primo luogo, per il mistero di ciò che sia realmente di mano di Mozart e di quanto (molto) degli amici e allievi che lo completarono, proponendone l’esecuzione nel 1793, due anni dopo la morte del compositore. E poi, per l’eccezionale popolarità, dovuta, oltre ad incisioni di direttori storici come Karajan ,Walter, eccetera, al film Amadeus, falso storico, che tuttavia ha avuto una eco notevolissima a livello mondiale.

 

Temirkanov dà forse il meglio di sé nelle sezioni lente, in primo luogo nell’Introitus – l’unico brano completamente di Mozart -dove una compostezza spirituale non artificiale, ma sentita, si eleva, da clarinetti corni e fagotti e dai sospiri degli archi, a coro implorante una salvezza ed un “riposo” di pace definitiva. Il direttore russo muove le mani (senza bacchetta) e la persona a sollecitare l’onda sentimentale, gli attacchi e i colori giusti – autunnali, diremmo -, ricreando una atmosfera piena di lacrime non versate, di dolore non gridato: una religiosità autentica, non di maniera, come in tante messe “pro defunctis” di allora (e di oggi).

 

La drammaticità teatrale del Dies irae – di Mozart solo le parti dei solisti e del coro, quelle orchestrali appena accennate – si fa calma spettacolare nel “Tuba mirum” del basso, accompagnato dal trombone solista: un calma che fa venire i brividi, perché nella sua apparente linearità espressiva è densa e nervosa come una scultura neoclassica.

I quattro giovani solisti, molto bravi (in particolare il basso), e il coro hanno seguito i gesti creativi del direttore, segnando, oltre gli applausi frenetici che si aspettavano, un momento di contemplazione spirituale profonda, che, a chi scrive, ha fatto desiderare di riascoltare il Requiem, come gli accadde anni fa a Salisburgo, in una piccola chiesa barocca, con una ventina tra cantanti e strumentisti, appunto come Mozart l’aveva concepito. Non per le grandi orchestre attuali, ma per un modesto organico, che descrivesse brividi lacrime, terrori e consolazioni tutte intime, tutte e solo preghiera.

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