Il rapporto Draghi fra crescita e inclusione sociale

Sarà centrale per il futuro dell’Unione Europea il dibattito sulle proposte avanzate nel voluminoso rapporto sulla competitività redatto dall’ex governatore della Banca centrale europea ed ex presidente del Consiglio italiano. Un primo contributo sulla sfida dell’inclusione sociale messa in crisi dall’attuazione di una globalizzazione che ha fatto crescere malcontento e sovranismo
Dragi Ansa TWITTER/VON DER LEYEN

Ha avuto una certa eco nei mezzi di informazione, soprattutto per l’autorevolezza del suo estensore, ma anche per le dimensioni ambiziose delle sue proposte: un piano di almeno sei anni, ciclopico, da 800 miliardi all’anno – che corrispondono al bilancio annuale dello Stato italiano – con la fonte di finanziamento tramite debito pubblico europeo.

Le tre aree di intervento sono l’innovazione (molto nell’intelligenza artificiale), la decarbonizzazione e la competitività, l’aumento della sicurezza – mediante un rafforzamento dell’apparato militare europeo. Per essere più competitivi, Draghi propone di incrementare l’unità e la concertazione europea, con una riforma della governance.

Va puntualizzato che il piano proposto riguarda solo il recupero di produttività del settore industriale, che pesa a livello europeo per il 19% dei lavoratori (32 milioni) e per il 24% del valore aggiunto.

Il rapporto Draghi “Il futuro della competitività Europea” merita certamente una lettura critica approfondita, che non può essere sintetizzata in poche righe.

Per questa ragione, ho scelto di focalizzare la mia attenzione su quello che ritengo il nodo più problematico di questo rapporto, ovvero la parte intitolata “Salvaguardare l’inclusione sociale”. Ne propongo la lettura di un passaggio.

«L’Europa dovrebbe imparare dagli errori commessi nella fase di “iperglobalizzazione” e prepararsi a un futuro in rapida evoluzione. La globalizzazione ha portato molti benefici all’economia europea e ha fatto uscire dalla povertà centinaia di milioni di persone in tutto il mondo. Ma i responsabili politici sono stati probabilmente troppo insensibili alle conseguenze sociali percepite, in particolare al suo apparente effetto sul reddito da lavoro. Nelle economie del G7, le esportazioni e le importazioni totali di beni in percentuale del Pil sono aumentate di circa 9 punti percentuali dall’inizio degli anni ‘80 alla grande crisi finanziaria, mentre la quota di reddito del lavoro è scesa di circa 6 punti percentuali in quel periodo – il calo più marcato da quando i dati per queste economie sono diventati disponibili nel 1950. Sebbene questo rapporto possa essere dovuto più all’automazione che all’apertura del commercio, l’idea che la globalizzazione abbia esacerbato le disuguaglianze si è infiltrata nella percezione pubblica, mentre i governi sono stati visti come indifferenti. I responsabili politici dovrebbero imparare da questa esperienza per riflettere su come la società cambierà in futuro e su come garantire che lo Stato sia percepito dalla parte dei cittadini e attento alle loro preoccupazioni. Una parte fondamentale di questo processo sarà l’emancipazione delle persone. I leader e i responsabili politici dovrebbero impegnarsi con tutti gli attori delle rispettive società per definire obiettivi e azioni per la trasformazione dell’economia europea. Un coinvolgimento più efficace e proattivo dei cittadini e un dialogo sociale che unisca sindacati, datori di lavoro e attori della società civile saranno fondamentali per costruire il consenso necessario a promuovere i cambiamenti. La trasformazione può portare alla prosperità per tutti solo se accompagnata da un forte contratto sociale».

Mario Draghi riconosce gli errori di un modello che ha generato le premesse per l’esplosione di populismi e sovranismi in gran parte dei Paesi occidentali, ma ne fa un problema di percezione dell’opinione pubblica, di marketing sulla funzione dello stato, di mancato ascolto dei cittadini, tralasciando i dati e l’esperienza di impoverimento di larghi strati di popolazione e di arretramento dello stato sociale.

E questo è il punto nodale: si ammettono gli aspetti controversi della globalizzazione, ma non si mette in discussione il modello sottostante, proponendo politiche che vanno verso una competizione economica internazionale ancora più “muscolare” nonostante la sua oggettiva insostenibilità ambientale e sociale.

Tutto ciò in un quadro politico fortemente frammentato e polarizzato dentro la stessa Unione Europea, che renderebbe comunque molto complicato attuare le proposte di Draghi, in primis quelle sulla decarbonizzazione.

Ora, non ci si potrebbe aspettare da Draghi una visione diversa da quella delineata nel rapporto. Si potrebbe però utilizzarne il contributo per interrogarci su ciò che di buono l’Europa ha realizzato. Per esempio, nonostante sia aumentato, il livello di disuguaglianze rimane decisamente migliore rispetto a quanto si sperimenta negli Usa oltre che in Cina.

La domanda di fondo, sottesa al documento, è quella di cosa l’Europa voglia diventare da grande, in un futuro prossimo: non si tratta solo di regolare o rinforzare la competizione economica interna o esterna all’Unione (con la proposta di dazi sulle importazioni extra Ue), ma anche del modo di vivere, e forse ancora di più della visione della persona e della società che vogliamo realizzare, nel presente e nel futuro. Da queste premesse culturali e valoriali condivise è iniziato il percorso verso il primo nucleo fondante dell’Europa di De Gasperi, Adenauer e Robert Schuman, da una intesa sostenuta dalla propensione al dialogo ed all’incontro.

Può diventare allora prezioso, forse indispensabile, iniziare, continuare, intrecciare cammini di dialogo, incontro e concretizzazione sui temi e gli ambiti posti dal rapporto Draghi, per rispondere con intese dal basso e buone prassi locali, che sanno mettersi in rete a livello globale.

Per esempio, sul tema legato alla decarbonizzazione, possiamo accogliere anche la proposta di sostituire le auto endotermiche con auto elettriche, ma in una progressiva revisione delle nostre scelte di consumo e di mobilità: optando per auto meno pesanti e come tali meno impattanti, incrementando al contempo le reti di trasporto pubblico.

Per quanto riguarda l’innovazione, il settore industriale è importante, ma non meno la tutela dei nostri habitat investiti dalla forza travolgente dei cambiamenti climatici. Innovazioni che ci sono anche nel nostro Paese, come “bosco limite”, un sistema forestale che ricarica la falda acquifera.

Forse possiamo estendere e condividere l’esperienza di sicurezza che abbiamo saputo costruire a livello europeo rilanciando la capacità di mediazione politica fortemente accantonata nei confronti armati attuali.

Infine, sta a noi arricchire la prospettiva e i contenuti del rapporto: se sul tema demografico non emerge alcuna proposta, riportiamo al centro dell’impegno la “famiglia” (termine mai citato nel rapporto!)

La sfida di un’Europa dei cittadini propositiva è tutta da costruire. O forse, la si sta costruendo nel silenzio, nell’impegno concreto che meriterebbe la stessa visibilità delle indicazioni di Draghi.

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