Il profumo delle fragole

C’è stata la Fiera del libro a Torino, con ospite d’onore la letteratura d’Israele. Come spesso capita nel nostro bel Paese, s’è accesa una violenta quanto sterile polemica, mescolando letteratura e politica. Ma, alla fine, il buon senso ha prevalso (come spesso capita da noi). Non vado alla fiera come rappresentante del mio governo, ma come ambasciatore del libero pensiero ha detto, riassumendo il pensiero di tutti, il giovane autore Ron Leshem. Molti scrittori israeliani sono spesso critici con le decisioni politiche e militari del proprio governo. Tanti sostengono il processo di pace: basti nominare Amos Oz, esponente di Peace Now, o Abraham Yehoshua. Ma, non si può neppure chiudere gli occhi. La situazione politica, aggrovigliata d’imprescindibile storia, è troppo articolata e traumatica per essere liquidata con sufficienza. E fornisce lo scenario conflittuale in cui interagiscono le vicende collettive del popolo palestinese e di quello israeliano, e i tanti individuali destini umani. Questo scenario di rabbia e di dolore è anche quello in cui si muove il nutrito gruppo di scrittori che ormai da decenni dà lustro alla letteratura israeliana, che s’è conquistata il favore di tanti lettori. Perché ha il vigore che trasuda dall’amore per la vita; perché s’innesta nell’affascinante labirinto delle proprie radici; perché ha dimostrato coraggio e sincerità nell’affrontare le contraddizioni che lacerano le società odierne, e che si ribaltano in modo esasperato nel coacervo del Medio Oriente. Alla Fiera erano presenti tre generazioni di scrittori. I veterani: come Aharon Appelfeld, che ha tenuto la prolusione; l’iracheno Sami Michael, rifugiato in Israele nel 1949; e il ben conosciuto Yehoshua, con il nuovo romanzo Fuoco amico. Poi quelli dell’età di mezzo: come Meir Shalev, che ha presentato il suo recente Il ragazzo e la colomba, un libro per chi vuole gustare una storia scritta con l’intelligenza del cuore (Meir è autore dell’incandescente e tenerissimo romanzo La montagna blu, un groviglio di sogni e ricordi, sullo sfondo delle intriganti vicende dei primi pionieri in terra d’Israele). E infine il gruppo dei giovani, tra cui: Alon Altaras, che insegna in Italia; e il già citato Ron Leshem, con il suo Tredici soldati, ambientato nella guerra de Libano, che è diventato anche un film. Molte le scrittrici: Savyon Liebrecht, Zeruya Shalev, Avirama Golan, Shifra Horn, Sara Shilo, Orly Castel-Bloom, Lizzie Doron. Fra tutti, però, ci piace soffermarci con il decano, Aharon Appelfeld. Anch’egli giunto alla Fiera con un nuovo lavoro, scritto sui bordi della memoria: Storia di una vita. Della sua. Nato nel 1932 in un piccolo villaggio dell’Est europeo, da una famiglia benestante e colta, quando ha sette anni vede uccidere la madre per mano dei tedeschi. Segue il baratro: imprigionato nei campi di concentramento, riesce a scappare tra le terre d’una Germania devastata. Ricordo che nel bosco mi chiedevo: che ho io di male, che tutti mi perseguitano? . Nel suo vagabondaggio è aiutato da ladri, assassini, ed anche da benevoli animali. Afferma lapidariamente: Non ho visto Dio ma ho visto i giusti. Poi la guerra finisce. Spuntano i campi profughi, dove tutto si mescola nell’esuberante, a volte incosciente, voglia di dimenticare in fretta e di tornare a godere della vita: il ragazzino Aharon ricorda uomini e donne che ballano, bevono e fanno l’amore alla luce del sole, mentre alcuni si aggirano sconsolati perché non trovano dieci uomini per poter pregare (alcune preghiere gli ebrei non le possono recitare individualmente, ma in un minimo di dieci). A sedici anni giunge a Tel Aviv, sfinito, ma deciso a ricominciare. Scopre l’ebraico, a lui sconosciuto. S’accorge d’essere in una terra unica al mondo, nella quale i figli insegnano a parlare alle mamme. Sente il bisogno di questa lingua così primordiale, che mi facesse da voce. Legge la Bibbia e si confronta con un’esperienza arcaica, ma ricca delle vicende di uomini e donne in carne ed ossa, le cui vite s’intrecciano in un ineguagliabile percorso tra terra e Cielo. S’accorge di quello che sta capitando al suo popolo: Era un popolo che credeva in Dio, che aveva un legame profondo con il divino. Per molte generazioni è stato un popolo disposto a morire per la propria fede. Verso la fine del XIX secolo, improvvisamente, tutto questo ha perso di significato . Si ricorda che da bambino vedeva il nonno pregare e chiedeva spiegazioni ai genitori, che non erano religiosi: Loro mi rispondevano che prega perché ci è abituato. Così come uno è abituato a bere un bicchierino dopo pranzo, i miei si riferivano al pregare del nonno come a una forma di routine, non ne coglievano il significato. Continua Appelfeld: Il mio popolo ha perso il senso della fede e dello stupore. Io l’ho riscoperto grazie al cristianesimo… Ricordo che da piccolo in casa mia lavoravano due cameriere ucraine, molto pie. Ricordo la grande impressione che mi fece una di esse cui era caduta per terra una sua icona. Subito s’inginocchiò e iniziò a pregare. Credo sia stata la prima espressione concreta religiosa che ho incontrato. Mi portavano a passeggio e spesso entravamo in qualche chiesa. Io ammiravo questi grandi spazi vuoti e decorati, ero impressionato dal sangue che fuoriusciva dalla figura di Gesù. Non ho mai dimenticato. È un grande paradosso per un ebreo come me aver scoperto la dimensione religiosa attraverso il cristianesimo. S’affida alla memoria, Aharon. Cosciente che è il più bel dono che l’uomo possa fare all’uomo. Egli sa che i ricordi non sono solo pensieri, ma anche sguardi, palpitazioni del cuore, brividi lungo le spalle, le braccia, lievi tocchi delle dita; che sono colori, odori. Ricorda il grande cesto di vimini, colmo di fragole rosse, portato sul capo da una giovane rutena. Ricorda lei, che cammina lungo la stradina di campagna. Ricorda il papà che la ferma e compra l’intero cesto. Ricorda la mamma che lava le fragole, le addolcisce con zucchero e panna. Ricorda il loro profumo, di primavera. D’infanzia. Ricorda il gusto delizioso al palato. Un ricordo che s’infila con altri, come perline in uno spago, a formare un’attraente collana.

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