Il profeta
Il film di Jacques Audiard, con durezza e feroce realismo, mette in discussione la funzione del carcere come luogo di rieducazione e redenzione. Un giudizio finale lasciato allo spettatore.
Premiato con 9 César, il film di Jacques Audiard sconvolge per la durezza e il realismo feroce. Il carcere strumento di redenzione? Tutt’altro. Il diciannovenne Malik El Djebene (Tahar Rahim) non sa leggere né scrivere. È impaurito, chiuso. Ha sei anni da scontare. Preso di mira da César (Niels Arestreup), leader della gang còrsa che spadroneggia in carcere, il ragazzo vive un’educazione al male e alla sua pericolosità, più che al bene. Compie diverse “missioni” fuori dal carcere che gli insegnano a crescere, a diventare astuto, forte, sicuro di sé. Non indietreggia di fronte al delitto e alla morte. Una fotografia livida di interni slavati o di esterni sporchi, di facce senza bellezza e di ambienti senza luce, un ritmo implacabile sul filo del thriller psicologico, conferiscono un’ansia amara ad un racconto dove non c’è spazio per un sorriso, se non per qualche attimo ad un neonato. Il regista lascia sospeso lo spettatore dinanzi al finale: il ragazzo ce la farà ad uscire dal giro dove è entrato per sopravvivere o diventerà peggiore di quando è entrato?
Sembra che il pessimismo atroce che fa da sottofondo al film prospetti una soluzione senza speranza. Nel carcere infatti detenuti e custodi vivono dentro la medesima cappa di disumanità. L’amore, se pur qualche volta vorrebbe aprirsi una fessura, di fatto non viene lasciato entrare. È la sua mancanza a fare di questo film un ritratto doloroso di una umanità abbandonata a sé stessa. Girato con misura, senza inutili compiacimenti alla violenza per sé stessa, il film fa riflettere, scuote. È, infatti, una metafora sulla tremenda opera di seduzione del male nel nostro tempo.