Il prodigioso “brutto anatroccolo” di Odense

Andersen si portava dietro due fardelli: la sua antica miseria e la sua bruttezza fisica. Cercò sempre di liberarsi da questi condizionamenti. Il brutto anatroccolo è la fiaba della speranza e della resurrezione di tutte le anime del mondo prigioniere come la sua di costrizioni fisiche e sociali. Così come la Sirenetta lo aiuta a dissolvere in un ideale di amoroso riscatto i suoi due grandi amori senza risposta (la sorella di un amico e una nota cantante). È facile agli psicologi tracciare un profilo delle nevrosi di Andersen attraverso la sublimazione delle sue fiabe: facile, e di moda. Ma lui stesso sembra autorizzarli a questo, tanto trasparenti sono i parallelismi vita-fiaba, ed è anche significativo il titolo della sua autobiografia: La fiaba della mia vita (…). Controllato per autoeducazione, era in realtà portato a scatti di insofferenza. I moti dell’anima erano molto più forti in lui che negli uomini ordinari: ma questa è la norma in un artista; in Andersen però c’era qualcosa di troppo. Secondo i suoi contemporanei, spesso non vi era proporzione fra le sue gioie frenetiche e i suoi neri scoramenti. Poteva piangere a dirotto per una lettera giunta dalla Danimarca durante uno dei suoi viaggi. Poteva calare nell’angoscia per un piccolo sgarbo. E ne ebbe spesso, perché non sempre riusciva simpatico, nonostante i favori dei grandi e gli inviti ai castelli. Dissero di lui che viaggiava volentieri (…) perché voleva soprattutto acquistarsi notorietà. Sì, forse viaggi e incontri le facevano sentire qualcuno, mentre a Odense erano capaci di sussurrargli dietro, non troppo sottovoce: È tornato il nostro orango, tanto celebre all’estero!; ma era anche sincero quando diceva: Viaggiare è vivere. La vita diventa ricca e palpitante; non ci si nutre più, come il pellicano, del proprio sangue, ma della grande natura. (…) E accanto a chi lo invitava e onorava (al punto di dedicargli un monumento pubblico da vivo!) c’era anche chi lo considerava un seccatore sempre in cerca di pubblico per ciò che gli era appena uscito dalla penna. La storia di una madre, una delle sue fiabe-capolavoro sull’abbandono alla volontà di Dio nella desolazione, è legato al penoso ricordo di una terribile gaffe. Si dice infatti che, appena scritta la storia, non poté trattenersi dall’andare ad esibirla tutto felice a certi suoi amici. Solo quando percepì la loro reazione, si ricordò che costoro avevano perduto un bambino da poco, e che la fiaba li colpiva crudelmente. Allora si gettò ai piedi di quella povera mamma, e pianse con lei, angosciato della sua sbadataggine. Un gran numero delle sue Fiabe è caratterizzato da una compassione per il dolore del mondo che non diventa disperazione crepuscolare solo perché temperato da un’ostinata volontà di fede fortemente cristiana, e nutrito di quel lune tutto danese che è – dice Knud Ferlov nella prefazione della raccolta Einaudi – un complesso indefinibile di bonarietà, di modestia, di allegria, d’ingenua fierezza popolana, di serenità delle sorti avverse…. Su questo suo strato nazionale Andersen innestò il suo particolare saper vedere (…). Diceva a un amico che ogni staccionata, ogni fiore che vedeva nelle sue passeggiate lo chiamava, per così dire, per raccontargli qualcosa. Ascoltatore, dunque prima che narratore; fanciullo animista prima che poeta; sognatore dagli occhi che vedono sempre persone e cose al di là. Veder vivere tutto, tutto veder giocare il gioco dell’esistenza: soprattutto ciò che è umile e ignorato, e gli altri credono incapace di giocare, o di cantare. Questa fu la ricchezza di Andersen. (…) Il poeta indiano Tagore disse un giorno agli scolari danesi: Mi chiedo come mai avete tante materie di studio nelle vostre scuole: a voi ne basterebbe una: Andersen!. Cortese adulazione? no, Tagore non direbbe questa apparente banalità, se non sapesse nascondervi dentro un messaggio: quello che Andersen non è il campione mondiale della fiaba come ha detto qualcuno, ma una delle voci più pure che abbiano mai affermato (come Orsted, il suo filosofo prediletto) che non vi è contraddizione fra spirito e natura, realtà e miracolo: che le leggi della natura sono i pensieri di Dio, e Dio si scopre nella bellezza che è nel sole e nel soldatino di stagno, nel sorriso e nella lacrima, in ogni atomo, in ogni attimo.

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