«Il problema siamo noi adulti»

Nostra intervista a don Armando Matteo, teologo e autore di numerose pubblicazioni sul mondo giovanile. Una riflessione

Il 6 ottobre il papa ha detto ai giovani che si trova se stessi nel fare, «nell’andare alla ricerca del bene, della verità, della bellezza. Lì troverò me stesso». Che cosa vuol dire trovare la propria strada, non nel senso di vocazione religiosa ma nel senso più ampio possibile?

Significa ricordarsi di quella verità elementare per la quale ciascuno di noi impara a diventare umano guardando altri che già lo sono. I piccoli crescono guardando gli adulti. Solo in questo insieme di relazioni un giovane intuisce piano piano di che pasta è fatto. Per questo l’apertura ad esperienze concrete e soprattutto il confronto con altri permette il discernimento sulla propria esistenza.

Non è una scelta che si fa a tavolino o arrovellandosi inutilmente?

Cresciamo grazie alla fascinazione, guardando a persone appassionate, guardando uomini e donne impegnate. E più abbiamo la possibilità di confrontarci con altri tipi di esistenze più comincia a risuonare qualcosa dentro di noi finché avvertiamo che è stato toccato il centro di noi stessi.

Nel suo ultimo libro “Tutti giovani, nessun giovane” per i tipi di Piemme lei scrive che è «la società che ha bisogno dei giovani e non il contrario». Quindi, per sillogismo, anche la Chiesa ha bisogno dei giovani e non il contrario? Come interessare i giovani al sentimento religioso?

In generale assistiamo ad uno sbilanciamento eccessivo da parte della comunità ecclesiale attuale sulla fascia degli infanti e degli adolescenti, mentre sembra quasi che sugli adulti non ci sia un lavoro da fare. Bisogna riequilibrare questa attenzione perché oggi nulla è davvero così sconvolto come la vita di noi adulti. Abbiamo una vita più longeva, migliori condizioni di vita e non è più facile capire come mettere insieme il cristianesimo ereditato con la realtà. Per quanto riguarda il mondo giovanile l’educazione ricevuta dalla Chiesa sembra non interessare più il loro cammino nell’età adulta tanto più che si confrontano con adulti che mirano solo a restare giovani. Penso sia importante per la Chiesa inserirsi dentro queste fatiche e queste ferite e presentare il cristianesimo come un potente ingrediente per la propria crescita nella adultità.

Serve un modello umano pieno e autentico?

Io amo dire, “Gesù adulto per sempre”, colui che ci ha mostrato che la piena felicità consiste nella donazione. Non è un caso che alcune comunità monastiche e i movimenti ecclesiali hanno una maggiore attrazione verso il mondo giovanile perché nell’uno e nell’altro caso c’è un’attenzione alla crescita delle singole persone, ad un rapporto personale con Gesù. Le parrocchie dovrebbero imparare di più e la Chiesa denunci che il “re è nudo” e che questa società sta facendo fuori le energie migliori. Sarebbe già un passo avanti. Le nostre energie sono i giovani, il problema siamo noi adulti.

Questa è allora la grande sfida di questo papa?

Rinnovamento e cambiamento non si sposano con dei sacerdoti e dei vescovi che sono molto in avanti con l’età. Mi pare che papa Francesco ci voglia comunicare questa fatica del mondo giovanile per avvertire quanto manchi alla Chiesa la loro energia.

Cosa c’è da aspettarci da questo Sinodo?

La logica di Francesco è avviare dei processi. C’è da aspettarsi una maggiore consapevolezza di tutta la comunità ecclesiale verso dei giovani che sono pronti per dare il loro contributo. Il vero problema sono gli adulti. Occorre implementare quella che chiamo una “pastorale della seconda età” e riscoprire che il senso ultimo del cristianesimo è quello della gioia, della festa. La Chiesa è luogo di riconciliazione, dove c’è la possibilità di ritrovare una forza interiore. L’auspicio è restituire ai giovani la loro identità come eredi del mondo e far riscoprire agli adulti che la vera gioia è attrezzare le nuove generazioni per rendere questo mondo sempre più umano.

Emerge da un’inchiesta della Congregazione dell’educazione cattolica un generale disinteresse dei giovani verso la religione. Forse perché non si capisce più cosa significhi essere cristiani da adulti?

Penso sia la notizia più dolorosa da accettare perché noi investiamo tantissimo sull’iniziazione dei ragazzi. Il 90% della popolazione giovanile in Italia ha attraversato questo percorso. L’interesse non si accende perché c’è stata troppa enfasi al catechismo parrocchiale gestito spesso solo dal clero, mentre il luogo generativo sono le famiglie. Il luogo dove un bambino comprende che Dio è importante è in famiglia, nelle mani, nelle labbra dei genitori. Gli occhi di mamma e di papà sono la prima cattedra della teologia. Il catechismo assomiglia ad una questione scolastica più che ad un’esperienza di fede. Cosa non ha funzionato? Se guardiamo i dati sono stati sottostimati dalla Chiesa e ci dice che tante famiglie cattoliche hanno poco di cristiano.

Il papa spesso dice di «uscire dalla logica del si è sempre fatto cosi». Quali sono i sentieri nuovi da percorrere?

Nei lavori preparatori del Sinodo è emersa l’idea della “pastorale giovanile vocazionale” che vuol dire restituire alla giovinezza il suo sblocco naturale. Smettere di pensare che i giovani vivano una condizione stabile di vita. La giovinezza è la cosa più effimera che ci sia in cui un ragazzo è dotato di tanta energia affinché la possa investire nel mondo adulto. Spesso esiste una pastorale giovanile autoreferenziale. È importante rompere l’isolamento del mondo giovanile e soprattutto dire una parola al mondo degli adulti. La parola è quella che Gesù ci ha consegnato: la vera gioia è dare gioia. Il Sinodo riuscirà nella misura in cui la comunità ecclesiale riallaccerà i rapporti con il mondo giovanile. I giovani ci mancano. Dobbiamo cambiare tutto il possibile per rendere partecipi e protagonisti tutte le fasce della popolazione.

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