Il Principe e l’Olivo di Luca

«Lo avvistavi da chilometri, perché quell’inconfondibile chioma composta da sette punte distinte svettava sul mare verde che la circondava. Come fosse stato un albero conficcato sopra la distesa degli altri alberi. Lungo la stradina forestale che portava ai suoi piedi sentivi una curiosità crescente e ti veniva spontaneo accelerare il passo. Poi, una volta sotto, eccolo, di colpo. Ti metteva le vertigini. Come un precipizio al contrario. L’albero più alto d’Europa. Il Monte Bianco degli alberi». Misurava infatti 54 metri dalle radici alle chiome e per abbracciare il suo tronco occorrevano quattro-cinque persone.
Così nel suo Il canto del Principe (Ed. Ponte alle Grazie) Marco Albino Ferrari – una delle voci più autorevoli della cultura di montagna – parla del famoso abete bianco di Lavarone, in Trentino, abbattuto il 13 novembre 2017 da una violenta raffica di Föhn, il vento caldo e secco tipico della regione alpina. Un albero che quando era scoppiata la Rivoluzione francese era una pianta già grandicella, «alla cui ombra amava sostare Sigmund Freud e che certamente è stato ammirato anche da Robert Musil», ci ricorda Rigoni Stern nel suo Arboreto salvatico. Lo chiamavano “il Principe”, non solo perché era un monumento della natura, meta di pellegrinaggi da parte di escursionisti, botanici, curiosi e amanti di riti propiziatori delle selve, ma per quell’elemento immateriale che aveva a che fare con gli abitanti dell’Altopiano, eredi degli antichi Cimbri.
Ecco perché dopo lo schianto che ridusse al suolo quel patriarca arboreo, giornali e televisioni annunciarono: «L’Altopiano ha perso la sua anima». Ma si sbagliavano. Più volte la popolazione locale si riunì per decidere cosa fare di quel tronco fuori misura, quando nell’ultima assemblea pubblica intervenne a sorpresa uno sconosciuto di passaggio: «Buonasera, io sono un musicista. Vi ho ascoltati. E ora mi azzardo qui, tra di voi, a dare un consiglio. Ecco cosa dico: con il legno del Principe si dovrebbero costruire dei violini. Sì, ho detto violini, che facciano risuonare la voce del Grande Albero per tanto tempo. Oggi si suonano violini antichi di trecento anni, più o meno della stessa età del vecchio Principe. Se accetterete la mia proposta, questi violini continueranno a suonare quando nessuno dei nostri figli sarà in vita, quando nessuno dei nostri nipoti ci sarà più, e così avanti per generazioni. Costruire violini sarà il modo per non far morire l’anima del Principe».
Non a caso Rigoni Stern nel già citato libro riporta questa frase di Čechov: «Chi conosce la scienza sente che un pezzo di musica e un albero hanno qualcosa in comune, che l’uno e l’altro sono creati da leggi egualmente logiche e semplici». Andava, sì, valutata la grossa incognita costituita dal fatto che il piano armonico dei nobili strumenti ad arco si realizza con l’abete rosso di risonanza, non con quello bianco in questione (Abies alba). Ma la proposta venne accolta ugualmente, all’unanimità. Ora si trattava di cercare un maestro liutaio disposto ad accettare la sfida. Venne trovato in un trentino con laboratorio a Zurigo, a cui si affidò la lavorazione del violino e di altri tre elementi per comporre un quartetto; fu poi necessario attendere quattro anni per la stagionatura del legno… Fino all’epilogo a lieto fine di una storia che sembra una fiaba: nell’aprile del 2024 al Museo delle Scienze di Trento (Muse) tutti gli strumenti del quartetto – due violini, viola, violoncello – esordivano nello spettacolo Anima. Dentro il suono delle Alpi. L’anima, un certo tipo di anima contenuto nel legno del Principe avrebbe continuato il suo canto per i secoli futuri.
Dal Trentino alla Calabria di Carmine Abate, scrittore già membro di “Docenti senza frontiere” ora residente con la famiglia a metà strada tra Trento e Rovereto, ma che ogni anno fa ritorno nella sua terra d’origine come a rinnovarvi la propria appartenenza. La vicenda in parte autobiografica narrata nel suo ultimo romanzo L’olivo bianco (Aboca Ed.) ruota attorno ad un esemplare di questa cultivar antica che sopravvive allo stato selvatico soprattutto in Calabria e si caratterizza per l’abbondanza di frutti bianchi, da cui il nome. L’olio delicato che se ne ricava veniva un tempo usato nella preparazione del “crisma” per unzioni religiose.
La trama. In una calda notte d’agosto, mentre incendi dolosi devastano le campagne di Spillace, tre amici si riuniscono per decidere, dopo la maturità, cosa fare delle loro vite. Mentre due di loro meditano di lasciare la Calabria per emigrare in Germania, Antonio non sa decidersi: non solo a motivo di Elena, la sua ragazza, ma perché suggestionato dal racconto di nonna Sofia riguardante un cugino, Luca, sparito agli inizi del ‘900 dopo una notte in cui furono uditi degli spari. A lei aveva lasciato la casa e una striscia di terra aspra e scoscesa, con fatica trasformata in un piccolo paradiso fertile, motivo d’invidia da parte dei compaesani. Tra gli alberi da frutto spiccava un olivo bianco, accanitamente difeso dal parente contro i malintenzionati e per questo noto come “l’Olivo di Luca”: una meraviglia della natura, sia quando fioriva, rivestendosi di candidi petali, sia carico di frutti: olive verdi come negli altri olivi, ma bianche una volta giunte a maturazione.
In quella proprietà ogni anno la famiglia di Antonio trascorreva la Pasquetta. Ma Luca, era davvero partito per l’America o era morto? Ingaggiato dal padre per rimuovere la foresta di rovi che aveva invaso l’oliveto, il ragazzo cerca di ricostruirne la storia attraverso i ricordi di nonna Sofia, l’affabulatrice in grado di creare mondi fantastici; e mentre libera con fatica dall’intrico spinoso l’Olivo di Luca – simbolo di diversità che è anche fonte di bellezza, ricchezza –, finisce per riappropriarsi delle proprie radici, per assimilare valori che gli vengono da lontano, primo fra tutti il rispetto e l’amore per la natura. Parallelamente matura la sua storia d’amore con Elena.
Romanzo di formazione, dunque, nel quale Abate spezza una ulteriore lancia a difesa dell’ambiente da quanti, per arricchirsi, non esitano a devastarlo. Come Luca, infatti, anche il padre di Antonio difende il bosco di lecci di nonna Sofia contro gli incendiari. È questa anche la prima volta in cui l’autore – nipote e figlio di emigrati, lui stesso trasferitosi per lavoro in Trentino – narra di una famiglia che invece di emigrare ha deciso di restare: «Con L’olivo bianco – spiega – ho inteso raccontare la storia che avrei voluto vivere se fossi rimasto in Calabria. La storia di chi difende il posto dove è nato e si adopera per rigenerarlo se massacrato dal punto di vista ambientale. Ma anche chi è partito bisogna che faccia qualcosa per la sua terra nativa, quando vi torna. Per me “restanza” e “partenza” sono due facce di una stessa medaglia».
Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come? Scopri le nostre riviste, i corsi di formazione agile e i nostri progetti. Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni: rete@cittanuova.it