Il prezzo del soggiorno
L’imposizione di un tributo per la richiesta del permesso di soggiorno rappresenta un’iniziativa poco sorprendente. In fondo qualunque cosa ha un suo prezzo: il rilascio del passaporto e della patente, una visura, una qualunque prestazione sanitaria. Presto, immagino, si pagherà anche la carta d’identità che, in fondo, ha la stessa funzione del permesso di soggiorno: attestare chi siamo e dove stiamo. Dovrebbe invece stupire il ragionamento posto alla base di queste proposte, popolarmente condivise anche grazie alla diffusa ignoranza della materia. L’iniziativa, infatti, dovrebbe rendere più difficoltoso l’arrivo in Italia ai cittadini extracomunitari.
Anche l’introduzione del reato di ingresso clandestino, sanzionato con un’ammenda, servirebbe ad arginare il fenomeno e a farci sentire più al sicuro. È invece evidente che tutto ciò serve prima di tutto e soprattutto a dare l’idea di un’amministrazione statale che affronta la situazione e gestisce l’emergenza. Ma allo Stato conviene davvero questa politica, anche in termini economici? In realtà è difficile credere che l’imposta sul permesso di soggiorno o l’ammenda (che probabilmente non sarà mai pagata né lo Stato riuscirà a recuperarla) possano coprire i costi del lavoro delle persone impegnate nella prima accoglienza, delle forze dell’ordine, dell’amministrazione che rilascia i permessi, ed eventualmente anche di un tribunale, di un avvocato (naturalmente pagato dallo Stato) e così via. Per non dire, poi, dei costi per l’assistenza all’immigrato ospitato necessariamente in un centro di accoglienza o delle spese di viaggio per un rimpatrio forzato. Allo stesso tempo è difficile convincersi che chi ha deciso di sbarcare in Italia avverta questi ulteriori provvedimenti come un deterrente o una minaccia. Nessuno, spinto dalla fame, dalla guerra, dalla persecuzione, dalla discriminazione, si fermerà di fronte all’idea di pagare il permesso di soggiorno o un’ammenda.
La voglia di vivere è più forte. Chi scappa è spinto dalla necessità di fuga prima ancora che dal fascino di ciò che lo attende, che è solo una speranza, un lontano e sconosciuto miraggio. Eppure una volta giunti in un clima accogliente, appena si orientano in un improbabile italiano mescolato a nostre espressioni dilettali, alcuni immigrati riescono a sprigionare le loro migliori energie. Il lavoro più duro, nei cantieri o nei campi, si trasferisce lentamente in piccole attività anche di tipo imprenditoriale che non passano inosservate. Poi da cosa nasce cosa: basta pensare, per fare un solo esempio, all’impegno della Camera di commercio di Milano, che insieme a numerosi altri partner sostiene corsi di formazione dedicati solo agli immigrati che avviano attività imprenditoriali. Davanti alla complessità di questa situazione basta farsi quattro conti per capire che le recenti iniziative del governo possono fare colpo sull’opinione pubblica che si sente invasa e minacciata dallo straniero, ma non realizzano quanto promettono. Forse converrebbe rimettersi al lavoro e rifare i conti volgendo altrove il pensiero. Guardare all’Africa (e all’Asia) con uno sguardo diverso, aprirsi alla cooperazione con molti piuttosto che cedere ai ricatti di pochi. Guardare ad un Paese, il nostro, che può ancora aprire le sue porte in maniera intelligente e ragionata ma anche calorosa ed ospitale. Possiamo dare molte cose anche senza che a queste corrisponda necessariamente un prezzo.