Il presidente tedesco chiede perdono per il colonialismo
La Germania è la prima potenza europea a scusarsi pubblicamente per le atrocità dell’epoca coloniale. Il dibattito su questi temi è sempre più acceso. Alcuni sostengono che questa pagina storica debba essere voltata una volta per tutte. Altri pensano che merita una “rilettura congiunta”, che non è mai stata affrontata. Il presidente Steinmeier ha dichiarato che «è importante fare i conti con questo capitolo oscuro e farli insieme». Le dichiarazioni di Steimeier sono state paragonate a quelle di re Carlo III durante la sua visita a Nairobi su «atti di violenza ripugnanti e ingiustificabili commessi contro i kenioti». Ma il monarca britannico è stato criticato per non aver presentato scuse formali.
Ne ho parlato con lo storico, ricercatore, scrittore e professore camerunese, rev. Joseph Kuate.
L’eredità del colonialismo ha influenza sulla vita degli africani oggi?
Secondo il gesuita camerunense P. Engelbert Mveng, l’Africa è stata impoverita antropologicamente dalla tratta di schiavi, dalla colonizzazione e dal neocolonialismo con i relativi pregiudizi. Tutti questi elementi storici hanno fatto precipitare l’Africa in una povertà insuperabile. La povertà in Africa non si riduce solo al problema dell’avere, ma dell’essere, è la condizione umana che è stata frustrata, traumatizzata, impoverita. È quindi una povertà antropologica e strutturale, più cronica di quella socioeconomica. Padre Mveng, che era uno storico dell’arte, pensava che la liberazione dovesse iniziare dalla riabilitazione del genio africano attraverso lo studio delle sue produzioni artistiche e linguistiche. Il secondo livello da affrontare è la liberazione dal patto coloniale. Si dice, ad esempio, che il Camerun abbia ottenuto l’indipendenza dalla Francia il 1° gennaio 1960, ma il 13 settembre dello stesso anno la Francia se l’è ripresa con trattati iniqui che ancora gravano sul Paese. Quattordici Paesi dipendono ancora dalla valuta estera, il franco CFA.
A questo si aggiunge un “atavismo” che pesa su alcuni Paesi ex colonizzatori, in particolare sulla Francia che, per i propri interessi, preferisce mantenere alla guida dei Paesi africani dittatori corrotti, incapaci di promuovere una rivoluzione economica dei loro popoli.
Oltre alla dittatura, c’è l’arroganza delle istituzioni internazionali. Se dall’indipendenza degli anni ’60 fino alla prima metà degli anni ’80, un Paese come il Camerun ha conosciuto una crescita economica considerevole, pari ad almeno il 7% l’anno, la situazione è cambiata dalla seconda metà degli anni ’80. Il Paese langue sotto gli aggiustamenti strutturali del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale dal 1988. Queste istituzioni concedono prestiti, ma sono loro stesse a dettare il modo in cui devono essere utilizzati, senza tenere conto dell’influenza dell’ambiente o della genuinità dei beneficiari. Il 70% delle imprese pubbliche e semipubbliche è stato liquidato dalle ingiunzioni di queste istituzioni finanziarie internazionali. La recessione economica ha ripercussioni sulla vita socio-politica della popolazione. Il debito estero aggrava la corruzione.
Parlando degli 11 accordi coloniali, la discussione è pertinente?
Lo scrittore francese Hervé Bourge ha pubblicato nel 2011 un libro dal titolo contestato: L’Afrique n’attend pas. Riassumendo, lui afferma che nulla sarà più come prima; gli indicatori non possono ingannare. Il continente nero è il continente del futuro, quello che trabocca di giovinezza ed è effervescente, non molle. La sua demografia è aumentata del 30% dal 1990 al 2000. Oggi è di 1,4 miliardi [di abitanti]. Uno dei punti deboli dell’Africa è stato il vuoto demografico causato da oltre 4 secoli di spopolamento dovuto alla tratta degli schiavi. L’invecchiamento dei Paesi industrializzati farà dell’Africa un grande mercato di consumo che richiede necessariamente il trasferimento di tecnologia nei prossimi giorni.
L’Africa è da sempre, inoltre, un serbatoio inesauribile di materie prime. Si continuano a scoprire nuovi strati di miniere grezze e preziose, e basterà che l’Africa si appropri della tecnologia per trasformarle e diventare subito polo d’attrazione dei prodotti manifatturieri. In Africa, la presenza di asiatici, recentemente usciti dal sottosviluppo, faciliterà questa appropriazione, soprattutto perché i loro prodotti sono meno costosi. Oggi i partner stanno cambiando ovunque nel continente, si sono aperte scuole cinesi e non c’è dubbio che i futuri dirigenti del continente saranno formati in Asia. Gli occidentali sono costretti a rinegoziare i contratti che hanno sfruttato a lungo senza alcuna contropartita.
Un articolo intitolato “Africa ed Europa legate dallo stesso peccato” è apparso in questi giorni sul quotidiano keniota “The Nation”. Un’affermazione singolare. Questa consapevolezza potrebbe essere un faro di speranza per promuovere una comune umanità?
Credo che l’Africa e l’Europa siano legate davvero dallo stesso peccato. Gli europei, fin dal loro primo contatto con l’Africa, hanno sempre usato alcuni africani come cani da caccia per altri. Abbiamo parlato dei leader fantoccio messi al potere per facilitare lo sfruttamento dei loro Paesi e dei loro concittadini. Molti nazionalisti sono stati eliminati non direttamente dagli europei, ma da africani desiderosi di interessi o potere.
Anche gli africani sono colpevoli della loro situazione. Di fronte alla povertà e alla precarietà, molti si rassegnano. Inoltre, in Africa l’individuo è troppo assorbito dalla comunità e questo provoca la facile obbedienza allo status quo. Questa passività ha delle conseguenze; sopportano ingiustizie, abusi di potere in nome della solidarietà e della conservazione della stabilità sociale. Questo agevola l’accettazione degli sfruttamenti e delle disuguaglianze.
Se africani ed europei si rendono conto di avere un destino comune, devono correggere quelle malattie che hanno sempre oscurato le loro relazioni e stimarsi a vicenda.
Nessuno può essere abbastanza autosufficiente per dire che non ha bisogno degli altri. Parafrasando La Fontaine, abbiamo sempre bisogno anche del più piccolo di noi. È bene sviluppare relazioni più sane e sincere tra persone, nazioni e continenti.