Il posto degli Usa nel nuovo secolo
«Tra vent’anni il governo cinese si metterà a ridere davanti alle minacce degli Stati Uniti per l’annessione di Taiwan». Una delle ultime espressioni del Nobel per l’economia Paul Samuelson, statunitense, scomparso nel 2009, rende il senso della percezione di un nuovo mondo che si avvia ad essere multipolare, cioè con quattro, cinque potenze militari ed economiche sempre più determinanti nel governo del pianeta.
Come leggere questo passaggio della storia? Come è vissuto all’interno della società statunitense l’inizio di quello che è definito il secolo del declino americano? Secondo John C. Hulsman, uno dei membri a vita del “pensatoio” strategico “Council on foreign relations”, si tratta di evitare la fine dei passeggeri del Titanic che non trovarono le scialuppe di salvataggio in numero sufficiente perché i costruttori della nave erano sicuri che non sarebbe mai affondata. Senza cedere a visioni catastrofiche, si tratta di saper leggere i segni dei tempi che chiamano a nuove consapevolezze.
LA RESPONSABILITÀ USA IN UN MONDO CHE CAMBIA
di Sarah Mundell
Più che di declino si deve parlare di un cambiamento del ruolo degli Usa che sta producendo un ripensamento profondo della propria identità nazionale.
Sul piano militare, è ormai definito un graduale ritiro dalle zone di conflitto. Per essere chiari, la questione non è più rimanere o meno in Afghanistan, ma quanto velocemente andarsene via. Joe Klein, di Time Magazine, esprime l’opinione ormai diffusa, favorevole alla transizione democratica con coinvolgimento internazionale che spesso è però limitato al supporto logistico e tecnico alle forze militari in quei Paesi. Gli aiuti umanitari, teoricamente preferibili, hanno mostrato un’eccessiva permeabilità alla corruzione.
È in questo clima che il discorso del presidente Obama sullo Stato dell'Unione del 2012, si è concentrato prevalentemente su questioni interne; a cominciare dalla necessità di creare più lavoro per i cittadini statunitensi. Secondo il Pew Research Center, esistono, per due terzi della popolazione, tensioni tra ricchi e poveri nel Paese mentre finora uno degli ideali del popolo era la mobilità sociale. Come nota Tom W. Smith, del National Opinion Research Center di Chicago, la povertà non è stata percepita finora «come una gabbia in cui essere relegati per sempre, ma una condizione transitoria». In un tempo di elevata disoccupazione, non sono più una garanzia la laurea o il colore bianco della pelle.
Gli Stati Uniti si trovano perciò ad un punto di svolta. È il Paese che presenta ancora grandi risorse e una forte capacità imprenditoriale. Come nota Richard Florida, direttore del Martin Prosperity Institute all'università di Toronto, ancora adesso arrivano da ogni parte del mondo studiosi e professionisti desiderosi di imparare e condividere saperi, mentre gli studenti statunitensi, attratti dalla circolazione di idee, vanno a studiare all’estero. Fiorente è il numero di giovani professionisti coinvolti in progetti di volontariato interno e internazionale. Nel cinema, il supereroe solitario ha lasciato il posto a figure che partono dai propri limiti e chiedono collaborazione.
Secondo il giornalista Fareed Zakaria, del Time, «è fondamentale per gli Usa avere relazioni buone al servizio di una visione più ampia del mondo, sempre più caratterizzato da livelli crescenti di cooperazione, pace, prosperità e libertà… Negli ultimi sessant’anni, gli Usa hanno aiutato a costruire un ordine internazionale caratterizzato da istituzioni, norme e buone prassi. Centinaia di organizzazioni che aiutano a coordinare le politiche di Paesi dagli affari alla prevenzione di malattie, alla protezione ambientale, sono nuove creature della vita internazionale, e hanno creato un mondo con pace e prosperità mai viste prima».
Quando gli statunitensi pensano al ruolo del loro Paese nel mondo, ciò che viene in mente più spesso è un senso profondo di responsabilità. E anche quando i conflitti in cui sono coinvolti sono ispirati da un desiderio di far crollare governi autoritari, è uno sforzo profondamente ispirato dalla ricerca della giustizia e della pace.
Living City – Stati Uniti
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UN GIGANTE DAI PIEDI D’ARGILLA
di Alberto Barlocci
Si può dedurre un declino degli Stati Uniti in base ad alcuni indici macroeconomici? Negli anni Novanta la Russia visse una crisi di proporzioni catastrofiche con contraccolpi, anche sociali, molto gravi. Eppure, dieci anni dopo la dissoluzione dell’Urss, e pur con un’importante riduzione dei suoi territori, la Russia resta una potenza mondiale che svolge un ruolo rilevante, certo limitato – pur se in crescita – sul piano globale, e di certo influente in varie regioni del pianeta. Nei decenni passati, nessuno ha avuto dubbi sul ruolo globale della Cina, che certo non era l’attuale locomotiva economica planetaria.
Dunque, prima di parlare di declino va tenuto conto della capacità di reazione e di apprendere dai propri errori, del livello tecnologico e di sviluppo raggiunto, del potenziale produttivo e di innovazione scientifica, oltre alla dinamica interna degli Usa.
Siamo ancora di fronte all’unica potenza che dispone di 700-800 basi militari in tutto il mondo, di flotte dispiegate in tutti gli oceani, operativa in gran parte dei conflitti in corso, oltre a un potere economico che sarebbe immenso quand’anche non fosse il primo al mondo. Non è solo questione di prodotto interno lordo.
A mio avviso, il problema è un altro. Lo identificò chiaramente il presidente D. E. Eisenhower alla fine del suo mandato quando, era il 17 gennaio 1961, avvertì il pericolo che l’enorme «complesso militare-industriale» sviluppatosi potesse acquistare una «influenza ingiustificata» e un potere «disastroso». Aveva ragione!
Tale potere, tutelando i propri interessi, oggi influisce sulla politica estera e interna obbedendo a finalità che non necessariamente coincidono col potere politico. È questa irrazionalità, insieme alla chiusura al resto del mondo, sta possibilmente contribuendo al declino macroeconomico che taluni segnalano.
Questa democrazia saprà riappropriarsi dell’essenza che ne permise la nascita? C’è da sperarlo. L’alternativa è l’incubo del biblico Nabucodonosor: un gigante dai piedi d’argilla.
Ciudad Nueva – Argentina
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