Il poeta dell’eterna giovinezza cristiana
Bernanos diceva di non essere uno scrittore perché anteponeva a tutto la testimonianza: non una testimonianza qualsiasi, ma quella del soprannaturale, entrato una volta per sempre nella vita. Perciò poteva dire che lo scopo dell’arte non è l’arte, la cui eterna ricerca dell’espressione non è altro che l’immagine affievolita, o quasi il simbolo della sua eterna ricerca dell’Essere. E incominciò a narrare, pur tardi (Sotto il sole di Satana fu nel 1926 uno straordinario esordio), per essere fedele alla sua infanzia (l’enfant que je fus), come Péguy, avendo fatto ben presto a Dio l’offerta della vita e della morte per non avere catene, per essere davvero libero di vivere una vita povera, lontana dagli onori letterari (che sempre rifiutò), in pura testimonianza appunto, che riportava lo stesso raccontare, e il romanzo, al suo statuto medievale di romance-queste, inchiesta o ricerca narrata di quanto è più spiritualmente prezioso. Per essa, nel 1937 smise di narrare (a parte la rifinitura dello stremante romanzo Monsieur Ouine) per dedicarsi al combat pour la verité: Non sono un polemista né un pamphletista, ancor meno un dottrinario. Dio sa la pena che mi costa non scrivere più romanzi. È un grande sacrificio. Ma voglio, voglio tentare di restituire alla gente i suoi riflessi di buona fede, di sincerità. Contro le dimissioni europee del patto di Monaco (1938), l’acquiescenza alla ferocia hitleriana, il rammollimento materialistico e la viltà ideale e ideologica della borghesia, Bernanos scrisse memorabili libri senza guardare, lui cattolico e monarchico, in faccia agli schieramenti: La grande paura dei benpensanti lo faceva credere di destra (dalla destra di Maurras, dopo una prima illusione, si era amaramente staccato), I grandi cimiteri sotto la luna, denuncia delle atrocità franchiste nella guerra civile spagnola, lo fecero assegnare alla sinistra, mentre lo scrittore, che non abitava neppure alcun centro, era ben più preoccupato delle radici che dei loro effetti pur tragici di destra o sinistra: il materialismo, comune a capitalismo e comunismo, il produttivismo e la civiltà meccanica. Bernanos saggista non è inferiore al narratore: c’è sempre del saggista e del moralista nel narratore, e del narratore nel saggista. Nella sua scrittura, la salvezza dell’anima è sempre più importante non solo della letteratura ma della pelle, il diavolo non si vaporizza in una metafora politicamente corretta, c’è, fa e rifà; Dio è impegnato al lavoro soprannaturale (ma incarnato) con tutte le sue forze, e l’angoscia che tutti in diverso modo pervade è nella dinamica stessa, tragica e sublime, sapiente e inflessibile (amorosamente inflessibile) della Redenzione universale. Ogni frase di Bernanos, breve o lunga, prende avvio dalla creazione, comprende il peccato originale, percorre tutta la storia della salvezza, e attraverso l’agonia (= lotta, e morte fisica finale) degli esseri punta a folle velocità, come un astro, verso l’Alfa- Omega abbagliante dell’origine- fine in cui amorosamente cade. Scrittore unico per una nobiltà popolare, Bernanos scriveva per giustificarsi agli occhi del bambino che era stato. E lo spirito di infanzia, è per lui l’unica possibilità del mondo moderno, iperazionalista nel suo materialismo e nella sua ferocia autodistruttiva; si allea col suo fratello, lo spirito di povertà (evangelica) e con un senso dell’onore, umano e cristiano, altissimo e non negoziabile. Da questa costellazione di infanzia-povertà-onore, esce per lui la luce che gli fa dire, con santa Teresa di Lisieux, che tanto nell’ordine naturale quanto in quello soprannaturale tutto è grazia: conclusione del Diario d’un curato di campagna, ma anche di tutta l’opera e di ogni frase di questo grande, unico scrittore. L’onore cristiano di Bernanos è quello per cui mentre si pecca riconoscendo di peccare, non si ammette possibile né accettabile la diminuzione di un grammo di fedeltà a Cristo e alla Chiesa: Non vivrei cinque minuti fuori della Chiesa: se mi si cacciasse, vi rientrerei subito, a piedi nudi, vestito di sacco, con la corda al collo, non importa a quali condizioni. Questo è l’uomo che François Mauriac chiamava vecchio angelo , il poeta dell’eterna giovinezza cristiana, poeta di un Vangelo primaverile, dell’alba e del- l’innocenza del Vangelo pur in mezzo al fango più tetro e risucchiante. È narratore della tentazione e della grazia, della dimensione demoniaca e di quella purgatoriale dell’esistenza; del suo procedere oscuro e certo, straziato e ardente nella fede fino alle prime luci del paradiso intraviste da quaggiù con gli occhi dell’innocenza non perduta, o di quella ritrovata che sa scrivere parole come queste: Lo sguardo della Vergine è il solo sguardo realmente infantile, il solo vero sguardo da bambino che si sia mai levato sulla nostra vergogna e sulla nostra infelicità. Per pregarla bene occorre sentir su di sé questo sguardo, che non è per nulla quello dell’indulgenza ma della tenera compassione, della sorpresa dolorosa, di non so quale sentimento inconcepibile, inesprimibile, che la fa più giovane del peccato, più giovane della razza da cui è nata e, per quanto madre per la grazia, madre delle grazie, più giovane del genere umano. Bernanos conosce lo spirito di infanzia perché lo ha perduto alla sua origine e lo desidera come sua méta: Ho perduto l’infanzia e potrò riconquistarla solo con la santità. E perciò la sua diagnosi della società moderna è implacabile: Mai, certamente, in nessun’altra epoca della storia, il carattere sacro, il carattere religioso dell’infanzia è stato così misconosciuto. Di fronte alla cospirazione universale contro ogni specie di vita interiore sta la Chiesa incaricata dal buon Dio di mantenere nel mondo lo spirito di infanzia, questa ingenuità, questa freschezza che è la semplicità dell’anima, il tenero abbandono alla maestà divina. Invece, nella società contemporanea gli adulti dicono ai bambini: Diventate come noi, ma guai a obbedirgli entrando nel loro inferno, che è il non amare più. Solo i poveri, i veri poveri, sono come i bambini, perché conservano il segreto della speranza: La tradizione dell’umile speranza è nelle mani dei poveri, così come le vecchie ricamatrici conservano il segreto di certi punti di merletto che le macchine non riuscirebbero mai ad imitare. Immerso nell’orribile miseria del suo svuotamento spirituale, l’uomo contemporaneo ha in prospettiva la sola salvezza di una radicale conversione, perché non lo salverà davvero la democrazia del numero e del denaro. Bernanos ironizza dolorosamente sul dio-capitalismo: Pretendere di aver liberato i popoli perché non si è lasciato sussistere che un solo privilegio – il più umiliante, quello del denaro – è una enorme impostura. (…) Un mondo dominato dalla forza è abominevole, ma un mondo dominato dal numero è ignobile… È cosa da pazzi affidare al numero la custodia della libertà. È folle opporre il numero al denaro, perché sempre il denaro ha ragione del numero: è più facile e meno costoso acquistare all’ingrosso che al minuto. Al vertice di questa diagnosi, un’intuizione agghiacciante: La guerra totale è la stessa società moderna, al suo più alto grado di efficienza. Parente stretto di Péguy, incapace di compromessi e di mezzi toni, ha dato alla letteratura contemporanea due capolavori assoluti, il Diario di un curato di campagna e I dialoghi delle carmelitane, e moltissime altre pagine di profondità sorprendente e di umanità universale. La sua identificazione di infanzia, povertà e Vangelo mantiene un’attrattiva intattamente irresistibile, che continua ad irradiare invisibile luce. È il Vangelo dell’infanzia e della povertà a suggerire al curato di campagna le parole testamentarie: Odiarsi è più facile di quanto si creda. La grazia consiste nel dimenticarsi. Ma se in noi fosse morto ogni orgoglio, la grazia delle grazie sarebbe di amare umilmente sé stessi, allo stesso modo di qualunque altro membro sofferente di Gesù Cristo.